mercoledì 30 aprile 2014

Tanto è così dappertutto


Nonostante ciò che ho imparato a scuola ho recentemente scoperto che un assegno circolare emesso da una banca in favore di un proprio correntista impiega 5 giorni ad essere monetizzato nel suo conto. Gli assegni normali, a debito, vengono immediatamente pagati a qualunque sconosciuto si presenta allo sportello. L’obiettivo di questo stranissimo comportamento sta nel fatto che l’obiettivo di una banca è quello di vendere soldi e quindi trova vantaggioso mettere i propri correntisti in una situazione debitoria. In fin dei conti si tratta di un altro modo di fare dei prestiti ribaltando il rapporto con il titolare del conto. Non solo le banche pagano ai correntisti un interesse molto più basso delle commissioni e delle spese che servono per il mantenimento dello stesso ma addirittura cercano di costringere i propri clienti a prendere in prestito del denaro di cui non hanno bisogno. Disgustato per la scorrettezza dimostrata dalla mia banca ho deciso di rivolgermi ad un concorrente e gli amici e gli operatori del settore, quasi fossero stati un esperto coro di voci bianche, mi hanno consigliato di lasciar perdere perché “tanto è così dappertutto”.
La città dove risiedo non è certo famosa per tornado, trombe d’aria, uragani, eppure mi capita spesso che basta la presenza di una nuvola in cielo perché venga interrotto il servizio telefonico di un importante gestore nazionale. Secondo contratto (stipulato telefonicamente e quindi…) i tecnici hanno un massimo di 4 giorni lavorativi per risolvere il mio problema. Non avendo stipulato un contratto Business (in questo caso, almeno a parole, si garantisce una maggiore rapidità) rimango senza possibilità di collegamento alla rete, senza possibilità di effettuare o ricevere telefonate, di vedere i canali televisivi che necessitano di decoder per diversi giorni. Il limite massimo, ovviamente, diventa la prassi e non un evento straordinario. Seccato per la scorrettezza della società che pago perché mi fornisca il servizio di cui ho bisogno ho paventato l’ipotesi di cambiare gestore. Ancora una volta il coretto vox populi è stato lo stesso: “lascia perdere perché tanto è così dappertutto”.
Ho vinto una causa civile ed ho diritto ad un risarcimento danni ma la ditta soccombente non paga e nella mia stessa situazione ci sono tantissimi altri connazionali. Il titolare della società in questione è la massima figura istituzionale del CNA regionale. Quest’uomo perora la causa di tante ditte artigiane che in questa crisi rischiano di scomparire perché le banche non agevolano sufficientemente il credito. La banca che ha la maggiore esposizione nei suoi confronti è “la mia banca”. Si potrebbe tranquillamente affermare che, con il mio lavoro, sto prestando soldi a chi non me li restituirà mai. Quando ne parlo con qualcuno mi sento ripetere la solita solfa: “lascia perdere perché tanto è così dappertutto”.
Leggo il giornale e il mio umore non migliora. Gli articoli che scorrono davanti ai miei occhi mi mostrano una società scorretta, ipocrita e castista. Arrivo fino all’ultima pagina e mi accorgo che manca un’articolo. Mi riguarda. E’ quello in cui decido di non pagare le tasse e decido di smetterla di comportarmi con senso di responsabilità, con correttezza, onestà e civiltà. Il motivo? “Tanto è così dappertutto”.

Una Nato nel commercio

Solo una vasta protesta di massa in tutta Europa potrà sgominare questo nuovo Trattato (di Alex Zanotelli) “In questa campagna elettorale per il Parlamento europeo, riteniamo estremamente importante un serio dibattito, non solo in Italia, ma in tutti i ventotto paesi dell'Ue, sul Trattato di libero scambio fra gli Stati uniti e l'Unione europea, noto come Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti(T-Tip). Le trattative iniziate in tutta segretezza lo scorso luglio, a Washington, sono condotte da un pugno di esperti della Commissione europea e dal ministero del commercio Usa. In dicembre, sempre a Washington, c'è stato il terzo 'round' di negoziati. Nonostante la maretta dopo lo scandalo Datagate, i negoziati sembrano procedere a gran velocità: a marzo si terrà a Bruxelles il quarto round di negoziati. Questo Trattato creerà la più grande area mondiale di libero scambio fra due economie che rappresentano metà del Pil mondiale e un terzo dei flussi commerciali. Tutto questo con grande esultanza del mondo degli affari. "Il Trattato più importante del mondo", ha sentenziato 'Il Sole 24 ore' (26 ottobre 2013). Ma perché tanta euforia? Secondo il Commissario al Commercio Ue, Karel de Gucht, il Trattato offrirà all'Europa due milioni di posti di lavoro in più, 119 miliardi di euro di Pil, che equivale a 545 euro in più all'anno per ogni famiglia. Per di più, ci sarà un incremento del 28 per cento delle vendite di prodotti europei negli Stati uniti e dell'1 per cento del Pil. Sono molti a contestare la veridicità di questi dati, e a ridimensionarli. Ma ben pochi si chiedono quali saranno le conseguenze per l'Unione europea. Nessuna barriera ai mercanti "Il Trattato punta ad abbattere non tanto le tasse doganali tra Ue e Usa già basse, ma le cosiddette Barriere Non Tariffarie cioè i divieti di importazione e di tasse specifiche - scrive Monica De Sisto di Comune-info - che, anche grazie alle grandi battaglie contro la carne agli ormoni, il pollo lavato con il cloro, gli ftalati nei giocattoli, i residui dei pesticidi nel cibo, gli Ogm e così via, tengono lontane dal nostro mercato i prodotti non sicuri, tossici". Infatti con il T-Tip cadranno le tasse e le tariffe che hanno tenuto lontano questi prodotti. Il T-Tip avrà pesanti conseguenze sull'ambiente, lavoro e la stessa nostra democrazia. A livello ambientale, il Trattato incrementerà l'esportazione di combustibili fossili e gas estratti con il 'fracking' e permetterà alle multinazionali del petrolio di portare in tribunale i governi nazionali che introducessero regolamentazioni restrittive al riguardo, ma di fare anche ricorso contro legislazioni ambientali nazionali. Con la crisi ecologica in atto, tutto questo avrà conseguenze devastanti. Il Trattato avrà pesanti ricadute anche sul mondo del lavoro, aggirando le norme del diritto al lavoro e svuotando le normative per la protezione dei lavoratori. Ma sarà soprattutto la nostra stessa democrazia, già così debole, ad uscirne azzoppata. Il T-Tip è infatti un negoziato stipulato in totale segretezza senza la partecipazione attiva dei cittadini. (Né il Parlamento europeo né il Congresso Usa sono a conoscenza dei negoziati). È un vero e proprio colpo di Stato da parte dei poteri economico-finanziari che oggi governano il Pianeta. È la vittoria delle lobby (multinazionali e banche) che hanno a Bruxelles quindicimila agenti e tredicimila a Washington, stipendiati a fare pressione sulle istituzioni. "È un progetto politico - ha scritto Stefano Rodotà - ad asservire ancor più i lavoratori ai piani delle corporations, privatizzare il sistema sanitario e sopraffare qualsiasi autorità nazionale che volesse ostacolare il loro modo di agire". Il T-Tip guarda anche lontano, alla leadership mondiale. "Il Trattato potrebbe veicolare la strategia delle élites private della Ue e Usa - ha scritto Kim Bizzarri nell'opuscolo "T-Tip, un Trattato dell'Altro Mondo" (il quaderno di Attac è leggibile qui) - per condizionare le economie emergenti come i Brics e i Paesi dell'Asean e per conquistare la leadership internazionale su un ordine mondiale in cambiamento che minaccia l'egemonia Usa e Ue, ma anche per forzare il Sud del mondo verso un tipo di sviluppo dettato dagli interessi Ue e Usa". Non possiamo aspettare Come cittadini non possiamo accettare un tale mostro economico-finanziario che sarà pagato caro da miliardi di esseri umani, costretti a vivere tirando la cinghia. Per questo il T-Tip deve diventare soggetto di pubblico dibattito nelle prossime elezioni del Parlamento europeo, che si terranno a maggio. Lo stesso lo abbiamo chiesto per l'Accordo di Partenariato Economico (Epa), che la Ue vuole imporre ai paesi impoveriti (Africa, Caraibi e Pacifico-Acp). (Per firmare l'appello: "Fermate gli Epa"). Quando la finiremo con questi Fta (Accordi di libero commercio) che fioriscono ovunque, dal Nafta al Cafta? Espressioni evidenti del trionfo del mercato e delle sue leggi, che permettono a pochi di ammassare enormi ricchezze a spese dei molti: gli 85 uomini più ricchi al mondo hanno l'equivalente di tre miliardi e mezzo dei più poveri. "Tale squilbrio - ha scritto papa Francesco - procede da ideologie che difendono l'autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli incaricati di vigilare per la tutela del bene comune". E per di più, la più grande area di libero scambio al mondo, creata dal T-Tip, sarà difesa da un apparato militare (la Nato e gli Usa), che ingoierà buona parte dei 1.700 miliardi di dollari che spendiamo per armi ogni anno nel mondo. Le armi servono a difendere il 20% del mondo ricco che si pappa il 90 per cento dei beni prodotti. Possiamo fermarli, come nel 1998 Solo una vasta protesta di massa in tutta Europa potrà sgominare questo nuovo Trattato. Nel 1998, con una grande protesta, noi europei siamo riusciti a sconfiggere il Mai (Accordo Multilaterale sugli Investimenti) che è quasi la copia del T-Tip. Abbiamo vinto dicendo Mai al Mai! Possiamo fare altrettanto con il T-Tip. Chiediamo a tutti, credenti e non, di aderire a questa importante campagna per fermare un Trattato Intrattabile (per maggiori informazioni in campo europeo, vedi s2bnetwork.org; per informazioni alla campagna italiana Stop T-Top, vedi anche questa pagina FB). Ma chiediamo soprattutto alle chiese, alle comunità cristiane, all'associazionismo di ispirazione cristiana, di mobilitarsi contro la più grande 'Statua Imperiale' mai eretta, convinti che un 'sassolino' la può far crollare (Daniele, 3). Diamoci da fare perché questo avvenga! https://www.flickr.com/photos/120332833@N02

mercoledì 23 aprile 2014

Gli invisibili di Tomatis Pier Giorgio

Capitolo XI/ Gli invisibili
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Fuggii per i vicoli finché potei ma alla fine venni raggiunto. Due energumeni cominciarono a picchiarmi al volto ed alla testa, ripetutamente e con violenza. Quando mi accasciai a terra, un terzo prese a colpirmi con dei calci all'altezza dello stomaco e dei fianchi. Cominciavo a diventare insensibile al dolore, a causa delle percosse che stavo ricevendo. I tre continuarono a picchiarmi per almeno un quarto d'ora. Dopodichè, presero quel che restava del mio corpo dolorante e sanguinante e mi trascinarono per una ventina di metri, fino a che non raggiunsero una strada dove, pochi istanti più tardi, arrivò un quarto complice con un’auto. Mi infilarono nel baga-gliaio come fossi stato un sacco di patate e si avviarono verso destinazione sconosciuta. Non sentii più sparare ma non riuscii a distinguere se fosse per le percosse o perché gli assassini avevano deciso di inter-rompere la carneficina. Non avevo alcuna speranza di ca-varmela. Questi individui sembrarono essere professionisti esperti ed io non ero in condizione di cercare una via di fuga. Potevo solo sperare che mancasse ancora parecchio tempo prima dell’ora della mia esecuzione. Se mai mi fossi salvato, se mai avessi potuto tirarmi fuori da quella tragica situazione, sarebbe stato solo in un momento in cui il mio fisico si fosse rimesso dai traumi del selvaggio linciaggio che aveva subito. Mi sentii sballottato. Le mie ossa e i miei muscoli urlavano dal dolore mentre mi trovavo rannicchiato, al buio del vano dell’auto. Dopo circa mezz'ora di viaggio si fermarono ed aprirono il portellone del bagagliaio. Venni sollevato di peso e trascinato dentro un buio capannone. Qui mi legarono con delle manette ad una sbarra di ferro. Rimasi seduto in quella posizione per diverse ore. Mi ad-dormentai. Quando mi risvegliai la temperatura si era note-volmente abbassata. Doveva essere sopraggiunta la notte. Cominciai ad udire i primi suoni. Le mie orecchie stavano riprendendo a funzionare fino a riconoscere, chiaramente, il rumore provocato dalle pale di un elicottero che fendevano l’aria a poche decine di metri di distanza da dove mi trovavo. Un concitato vociare di diversi uomini fu il preludio all’aper-tura delle saracinesche di quella che, ora che anche i miei occhi cominciavano a scorgerla, doveva essere una vecchia fabbrica abbandonata. Venni nuovamente strattonato. Un ragazzo in giacca scura aprì con le chiavi le manette, me le sfilò dai polsi e mi prese per le spalle. Mi trascinò, senza tanti complimenti, verso l’esterno. Mentre ci stavamo avviando verso un gruppo di auto, voltai lo sguardo verso l’elicottero. Non riuscii a scorgere qualche indizio importante sull’identità delle persone che stavano salendovi sopra ma vidi che erano tre coloro che, per i capi di abbigliamento che indossavano, si distinguevano dai miei carcerieri. Arrivati ad una Chevrolet Epica beige, il giovane aprì il bagagliaio e, con una consuetudine a me ormai nota, mi ci scaraventò dentro. Dopo qualche minuto di un vociare concitato, l’auto e probabilmente anche le altre più vicine cominciarono a mettersi in moto e a far rombare i propri motori. Viaggiai sperando che mi venisse concessa la possibilità di riprendermi, così da poter vender cara la pelle, ma il viaggio durò solo pochi chilometri. Quando ci fermammo, i motori delle auto restarono accesi. Il gruppo si preparava a tornare indietro in breve tempo. Il bagagliaio si aprì ed io venni afferrato da almeno tre paia di mani. Venni portato dentro l’abitacolo dell’auto. I miei carcerieri mi legarono al posto di guida, con la cintura di sicurezza, e spinsero la macchina, con il motore in folle, verso un piccolo dislivello. L'auto cominciò a prendere velocità. Probabilmente questa sarebbe stata la mia fine. Dopo una ventina di metri circa mi ritrovai nel vuoto pronto a sfracellarmi chissà dove. Cominciai a pregare nei secondi che mi separavano dall'eterno oblio. Con sorpresa sentì un tonfo morbido ed un improvviso calo della temperatura con rumori gorgheggianti giungere da ogni punto dell’auto. La mia istan-tanea conclusione fu che ero stato scaraventato nel Lago Mi-chigan. Con le mani e le braccia che pesavano come macigni, e il freddo pungente che intorpidiva ancor di più i miei muscoli, sfilai la cintura di sicurezza, poi, ponendomi di traverso tra i sedili, puntai con i piedi la portiera anteriore destra e spinsi più forte che potei con la schiena quella del lato del guidatore, mentre con le dita della mano sinistra facevo scattare il meccanismo di apertura. La pressione era fortissima e il dolore lancinante ma com-plice la disperazione, al terzo tentativo, riuscii ad attuare il mio proposito ed a lasciare l'abitacolo dell'auto che si inabissava sempre di più. Trattenendo il respiro, vincendo il dolore, la fatica e il freddo pungente, mi spinsi con i piedi e le braccia verso l'alto, verso la superficie. Passarono lunghi ed interminabili secondi in cui credevo di non farcela più. Poi sentii un leggero tonfo e l'aria premere delicatamente le mie narici. Non riuscivo nemmeno ad aprire gli occhi tumefatti per i colpi ricevuti e pressoché inutili dato che di notte sulle rive di quel tratto di acqua del lago non c'era alcuna luce. Nuotai faticosamente, cercando di capire se la corrente provenisse da uno dei fianchi o dalla schiena. Dopo tre interminabili minuti mi accorsi che le mie mani afferravano qualcosa di solido. Ero giunto sulla terraferma. Mi trascinai per alcuni metri lungo la scogliera, poi, abbandonato completamente dalle forze, mi arresi e persi conoscenza. Quando rinvenni non sapevo se erano passate ore o giorni da quella tragica notte. Sapevo solo che per qualche scherzo del destino ero ancora vivo. Malconcio ma vivo. “Sei sveglio?” Udii una voce provenire dalla mia sinistra. Mi sforzai di aprire gli occhi ma il tentativo si rivelò fallimentare. “Non ti sforzare. Prova a parlare o a fare un cenno con il capo solo quando te la senti.” Cercai di aprir bocca e di pronunciare qualche parola. Fu tutto inutile. Allora mossi leggermente il capo in avanti. “Molto bene, giaguaro. Riposa e cerca di guarire. Il grande Spirito veglierà su di te.” Le parole dell'uomo mi colpirono più forte di quanto fecero gli uomini che mi avevano ridotto in fin di vita. L'uomo misterioso mi aveva chiamato giaguaro e il timbro della sua voce era sempre più chiaramente familiare. John Littletrees mi aveva raccolto e mi stava prestando soc-corso. Mi sentii più sollevato e i giorni passarono velocemente. Quando mi ripresi, in maniera sufficiente da potermi rialzare e affrontare la luce, aprii gli occhi, mi voltai sul fianco del mio giaciglio, diedi una fugace occhiata a quella che doveva essere una tenda da campeggio, mi sollevai e avviai verso l'esterno. Oltrepassai l'apertura dalla quale sentii provenire voci con-citate e vidi dei bagliori di luce con gli occhi ancora deboli e malconci. L’immagine che mi si delineò davanti agli occhi fu la più strana che mi fosse capitato di vedere in tutta la mia vita. Accanto alla mia tenda canadese ve ne erano altre, disposte tutto intorno a formare un cerchio, ed al centro del campo c’erano i resti carbonizzati di un falò circondato da una serie di pietre verdi ed aguzze. Un bivacco. La cosa che mi sorprese di più furono gli uomini e le donne, i quali si immobilizzarono letteralmente non appena mi videro uscire. Erano anziani uomini, e donne, di chiara origine pellerossa. Cercai con lo sguardo di scorgere la presenza di John Littletrees ma non vi riuscii. “John“ esclamai con un filo di voce. Dopo una decina di se-condi, mi si avvicinò un piccolo ometto con i capelli corvini, raccolti dietro la nuca in una lunghissima treccia, legati al ter-mine con un nastro di color rosso. “ L'uomo medicina ci ha detto di avere cura di te finché non ti fossi rimesso. Lui non è qui ma ti ha lasciato un messaggio alla maniera dell'uomo bianco.” Fu allora che l'ometto si voltò verso la vecchia dai capelli grigi, la quale, passato qualche istante di incertezza e confusione, entrò in una delle tende per uscirne immediatamente dopo con un foglio di carta arrotolato come una pergamena e stretto in centro da un nastro, dello stesso colore rosso di quello del ferma capelli del piccolo indiano che avevo di fronte. Me lo pose tra le mani e arretrò di alcuni passi. Slacciai il rotolo e iniziai a leggerne il contenuto. Sciamano giaguaro, l'uomo bianco della Gateland ti ha quasi ucciso ed è convinto di averlo fatto. Ha cercato di ucciderti fisicamente e ha fatto in modo che la morte di parecchi uomini, la distruzione di parecchie cose, fosse da ascriversi alla tua responsabilità. Questo ti insegna, giaguaro, che egli è più spietato e pericoloso di un serpente a sonagli. La prova che hai dovuto superare è stata descritta nei giornali dell’uomo bianco. Tutti sono convinti che tu sia morto. Anche tua moglie che presto pregherà per te il Grande Spirito. Se tu cercherai di tornare sui tuoi passi, il tuo nemico tornerà ad incrociare la tua strada per ucciderti e, questa volta, potrebbe riuscirci definitivamente. Il tuo destino è legato a quello di molti sfortunati abitatori di queste terre. Per sfuggire ad un nemico terribile dovrai renderti invisibile per giorni, settimane, mesi, forse anni. Ma quando verrà il suo momento il giaguaro tornerà a ruggire e ucciderà ogni suo avversario perché tra gli uomini medicina egli è il più potente. L'unico in grado di conoscere la mano destra del Diavolo, sopportare il suo tocco e non morire tra i più atroci tormenti. L’unico capace di sradicare il potere di Gateland dalla sua mano e di contribuire alla sua fine. Perciò il tuo compito, per l'immediato futuro, sarà quello di confonderti tra la povera gente, di unirti ad essa, di vivere secondo le regole del Grande Spirito avendo sopra la testa solo il cielo pieno di stelle e per abitazione la nuda terra. Ti renderai invisibile all'uomo bianco, in attesa che arrivi il tuo momento. Affilerai i denti e gli artigli e aspetterai con pazienza. Io ti osserverò e sarò sempre pronto ad aiutarti. La firma era, ovviamente, quella dello sciamano/lupo che fino ad allora era stato portatore di speranza per la mia vita, il mio destino, la mia missione: John Littletrees.

Risvegli di Pier Giorgio Tomatis

Cap. Sette Risvegli
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Qualcuno ha aperto la porta con violenza facendomi ruzzolare. Disse la giovane. Non c’è la possibilità che tu ti stia sbagliando? Sembrò suggerire Lorelay. Vi assicuro che è andata proprio così. Ripeté Hildegarde visibilmente seccata, per i dubbi espressi dall’amica. Quando Kyle, Gilbert e Daniel tornarono nella cantina chiesero ulteriori lumi all’amica e confermarono i sospetti che la casa fosse completamente deserta. Ai piani di sopra non c’è anima viva. Esclamò Kyle. E’ vero. Gli animali sono le uniche forme di vita presenti nello stabile. Aggiunse Kyle. Eppure qualcuno mi ha buttato giù dalle scale. Lo giuro. Sostenne con convinzione Hildegarde. Ti credo. Disse Gilbert. Solo che è tutto così… La comunicazione tra loro s’interruppe. Le luci all’interno della cabina di vetro aumentarono visibilmente d’intensità e colore. I ragazzi si strinsero tra di loro, si avvicinarono al vetro e guardarono ciò che stava succedendo. Il fenomeno al quale stavano assistendo cresceva ad ogni istante d’intensità. Le luci variopinte e gli scoppiettii che sembravano formarsi a mezz’aria aumentavano in maniera repentina. Tuttavia, tale fenomeno non sembrava produrre alcun suono o, almeno, nessuno dei ragazzi poté avvertirlo. Credo che sia meglio se ce ne andiamo. Sussurrò la piccola Audrey. Si, forse è meglio. Aggiunse Arthur. No. Siamo qui per svolgere un compito specifico. Ve lo debbo ricordare? Chiese Gilbert spazientito. E’ vero. Dobbiamo scoprire ciò che succede in questa casa. Rimarcò Daniel. Daniel fece appena in tempo a terminare la frase che un enorme fascio di luce colpì i suoi occhi e quelli degli altri ragazzi, tramortendoli e facendoli cascare in terra. La luce all’interno continuò a crescere d’intensità fino a coprire ogni centimetro della cabina. Passarono almeno un paio di minuti prima che il fenomeno cominciasse a regredire. Quando il laboratorio tornò ad essere immerso nel buio la porta della cabina si aprì. Una gelida brezza soffiò lieve verso il viso dei ragazzi. Gli occhi di Lorelay si liberarono del torpore determinato dal lungo sonno e si spalancarono per primi. La giovane non riuscì a sbatter le palpebre, paralizzata dal terrore. La tenue luce delle candele di un candelabro posto al centro di un tavolino stava sforzandosi di illuminare una stanza di almeno ottanta metri quadrati. Lorelay e tutti i suoi amici si trovavano inermi nel salotto di casa Chances, legati mani e piedi a delle sedie di legno di vecchia fabbricazione, umide e tarlate. Anche gli altri ragazzi ripresero conoscenza e compresero di essere stati fatti prigionieri da qualcuno. State tutti bene? Chiese Gilbert con uno strano timbro della voce e la bocca impastata come se avesse dormito ininterrottamente per diverse ore. La mia testa…mi sembra di sentirla scoppiare. Farfugliò Kyle. Legati. Siamo legati ad una sedia. Esclamò Daniel. Chi è stato? Chi ci ha ridotti così? Domandarono quasi in coro la piccola Audrey ed Alice. La domanda più giusta da farsi…il suono di una voce sconosciuta, stentorea e profonda, giunse alle orecchie dei ragazzi i quali sforzarono la propria vista per vedere a chi appartenesse…è che cosa facevate in casa mia? L’individuo che aveva proferito queste parole rimase seminascosto dalla luce delle candele che illuminava debolmente solo una parte del salotto. Gilbert si concentrò sui suoi lineamenti, sulla voce e su quanto stava dicendo per scoprire chi fosse. Ma che stai dicendo? Questa casa è tua quanto nostra. Tu non sei il Dottor Chances. Sarai un ladruncolo che si è intrufolato in casa sua. Disse Daniel. Fino a prova contraria…eravate voi che vi trovavate nel posto sbagliato. Voi non siete lui e nemmeno suoi lontani parenti. Accusò lo sconosciuto. Chi sei? Perché ci hai legati in questo modo? Domandò Gilbert con rabbia e veemenza. Io sono chi ho detto di essere. Rispose lo sconosciuto. Menti. Il Dottor Chances non c’è più da anni. E poi se fosse vivo…dovrebbe avere più di un centinaio d’anni. Centoventitré…per la precisione. E allora chi sei, mentitore? Mi chiamo Eugene Salomon Chances. Sono nato nel 1902 in Austria, in un paesino delle Alpi che si chiama …….. Occupo questa casa perché è mia di diritto. Bugie. Non puoi essere lui. E perché di grazia non potrei essere chi sono? Il Dottor Chances non può avere centoventisei anni. Nessuno lo può. Interessante teoria. Ineccepibile. Però, errata…perché io ho esattamente centoventisei anni. Assurdo. Adesso abbiamo la conferma che è un bugiardo…o un pazzo. Che cosa vuole da noi? A dire il vero…nulla. Vi trovavate in casa mia. Vi ho trovato svenuti in terra nella mia cantina. Non amo i visitatori e non potevo esser sicuro delle vostre intenzioni. Siamo solo dei ragazzi… Al giorno d’oggi è più che sufficiente per giustificare la massima cautela. Chi siete? Un gruppo di ragazzi che pensava che questa casa fosse disabitata. Adesso chi è che sta mentendo? Mentre eravate svenuti, quel ragazzo ha detto che sapevate benissimo che questa casa era abitata. Dunque, vi ripeto la domanda: cosa ci facevate in casa mia? I ragazzi si guardarono l’un con l’altro scambiandosi delle occhiate d’intesa. Parlò Gilbert per tutti. Abbiamo scoperto che lei sta conducendo esperimenti non autorizzati. Il Dottore si mise a ridere. Se la scienza ufficiale sapesse cosa sto facendo non solo approverebbe ma mi farebbe una corte serrata. Oh, basta. La smetta, per favore. Abbiamo visto cosa succede nel suo laboratorio. Abbiamo trovato la pietra che fonde i metalli. Il Dottor Chances sbigottì. Gilbert fulminò con lo sguardo la povera Alice. Avete trovato un Bargain? I ragazzi si scambiarono degli sguardi confusi. Il metallo che brucia gli altri metalli? Si, lo chiamai così. All’inizio…prima di sapere che cosa realmente fosse… E avete per caso provato ad accostarlo a del legno? I ragazzi aggrottarono la fronte in segno di stupore. No, certo che no. Ovviamente. Come avreste potuto saperlo. Questo comunque non risponde alla domanda principale: che cosa ci fate qui? Prima che il Dottore potesse avere una qualunque risposta la luce si spense. Il black-out durò qualche secondo, poi tutto ritornò alla normalità. I ragazzi si scambiarono degli sguardi increduli. Il volto del Dottore, invece, impallidì così tanto da sembrare bianco come marmo. Oh, no. Mio Dio fa che non stia accadendo ciò che temo. Il Dottore afferrò un coltello dal cassetto di un tavolo da cucina e, nel panico generale dei ragazzi, lo posò tra le gambe di Daniel. Recidi le corde che ti legano e libera i tuoi compagni. Daniel si stupì al punto che i suoi occhi parvero schizzargli fuori dalle orbite. Fa presto. Non c’è tempo da perdere. E dette queste parole, si allontanò correndo verso la cantina-laboratorio. Daniel afferrò in qualche modo il coltello e si liberò delle corde. Quando fu ora di liberare i compagni sistemò il coltello in modo che Gilbert lo potesse afferrare e poi uscì dalla stanza correndo nella stessa direzione presa dal Dottore. Alice e Gilbert urlarono nel tentativo di impedirglielo ma non riuscirono nel loro intento. Gilbert si liberò delle corde e poi fece altrettanto con Lorelay. A sua volta, la ragazza liberò Kyle. Nel giro di pochi minuti tutti si alzarono in piedi pronti a tornare nella cantina-laboratorio. Cosa che fecero immediatamente. Alice era preoccupata per la sorte del suo Daniel e corse più forte che poteva. Gli altri, pur spaventati da quanto era successo, non furono da meno. Tornarono nel laboratorio, in tempo per assistere ad una strana colluttazione. Daniel si trovava al centro della cantina ed osservava due uomini che sembrava stessero lottando tra di loro mentre la cabina di vetro era illuminata con luci multicolori ed emetteva un curioso ronzio. Uno dei duellanti era il Dottor Chances. L’altro aveva un abito stranissimo. Sembrava quasi indossasse una pelliccia d’animale, forse di un orso, dal colore arancione, decisamente innaturale. I due uomini si stavano contendendo un oggetto che nemmeno Daniel che si trovava a pochi passi da loro, riusciva a distinguere bene. Ad un tratto, il Dottor Chances ruzzolò in terra e la luce artificiale dei neon diminuì. Una coltre buia parve impossessarsi d’ogni centimetro di quella stanza. I ragazzi si spaventarono. Gilbert cercò di mettere a fuoco la vista e scoprì che il buio arrivava dall’interno della casa e si trattava di una nebbia di colore verde intenso. La porta della cantina, lasciata socchiusa da Hildegarde, si spalancò e strane creature entrarono da quell’apertura. Sembravano dei volatili, uccelli dalle piume color verde scuro e bianco. Dietro di loro spuntarono degli animali simili ad orsi giganteschi ma il colore era arancione, esattamente come quello della pelliccia che indossava lo strano individuo. Gilbert e Daniel fecero cenno ai ragazzi di farsi in disparte e nessuno osò contraddirli. Un urlo spaventoso, ma umano, riecheggiò nella stanza gettando ancor più confusione tra i ragazzi. Per quanto si sforzassero non riuscirono a capire chi potesse averlo lanciato. Non certo il Dottor Chances che si trovava ancora a terra, e nemmeno il misterioso personaggio vestito con pelle d’animale, il quale restava ritto, in piedi, vicino all’apertura della cabina a vetri. Gli strani animali continuarono ad entrare e si sistemarono attorno ai due contendenti. Quelli che sembravano degli orsi arancione, o enormi gibboni colorati, cominciarono ad annusare l’aria come se fossero alla ricerca di un particolare odore. I ragazzi erano terrorizzati e immobilizzati in un angolo del laboratorio. I gibboni si voltarono verso il misterioso personaggio con la pelle d’animale e Gilbert notò, solo in quel momento, che il colore era il medesimo. Lo strano uomo non sembrava per nulla intimorito da quelle demoniache creature. Anzi, il ragazzo pensò che ne avesse scuoiata una in precedenza per farsi quella cappa di pelliccia. Gilbert memorizzò il viso e lo sguardo dell’uomo. Gli apparivano quelli di un folle. Aveva una chioma grigia e scarmigliata sormontata dal muso di una di quelle bestie come copricapo e degli occhi scintillanti d’odio e pazzia. Il Dottor Chances, semisdraiato in terra, aveva il sudore che grondava dalla sua fronte e farfugliava delle parole il cui suono era appena percettibile. Dagliela. Da loro ciò che cercano. L’uomo che indossava la pelliccia tolta dal corpo di una di quelle bestie si limitò a ridere. Pazzo. Urlò. E’ proprio per loro che farò ciò che va fatto. Fu a quel punto che Gilbert notò che lo strano individuo stava tenendo stretto con le dita della mano destra un pezzo di roccia che non esitò a riconoscere. Si trattava del metallo che brucia gli altri metalli. Sembrava avvolto con del nastro isolante di colore nero e legato ad un pezzetto di legno ricurvo. L’uomo gettò l’oggetto che stava contendendo fino a pochi istanti prima al Dottor Chances nella cabina di vetro. Con una rapidità incredibile, e lasciando una scia colorata di verde, qualcosa d’indefinibile e di volante seguì l’oggetto. Doveva trattarsi di un esemplare di quelle specie d’avvoltoi. Una risata bestiale e spietata fece venire i brividi ad Alice. L’oggetto sembrava essere sparito. L’uomo con la pelliccia arancione se ne stava ritto, in piedi, ad osservare quanto stava accadendo davanti agli occhi di tutti e rideva come un folle. Dalla cabina a vetri si udì un orripilante gracchiare e versi d’enorme sofferenza. Tuttavia, Gilbert ed i ragazzi non riuscivano a capire cosa stesse accadendo. L’uccello si stava contorcendo come se fosse stato messo dentro un forno a microonde e, per quello che ne sapevano i ragazzi, poteva anche essere andata così. L’uomo con la pelliccia, allora, si diresse verso il pannello di controllo, vi armeggiò per alcuni istanti, poi, alzò lo sguardo e si limitò a lanciare un’occhiata demoniaca ai ragazzi ed al vecchio che si trovava ancora in terra. E’ qui? Domandò come in preda a follia il vecchio Dottore. La risata di scherno che ne seguì riempì l'aria. Gilbert il cui sguardo, fino ad allora, era stato calamitato dalle strane creature, non ebbe il tempo di notare altri particolari che una di quelle bestie simile ad un gibbone saltò in avanti e placcò l’uomo come non aveva mai visto far meglio in nessuna partita di football americano. Nello slancio, i duellanti finirono con l’entrare dentro la cabina di vetro. Mentre le fauci della bestia stavano banchettando sulle tenere carni dell’uomo, questi tirò una leva ed alzò il metallo che brucia gli altri metalli più che poteva. Gilbert vide che il Dottor Chances allontanava lo sguardo dalla scena in modo sospetto e ricordò l’episodio in cui un’intensa luce aveva causato lo svenimento di tutti i ragazzi. Colto da un’improvvisa intuizione si voltò ed allargò le braccia a difesa dei propri compagni ed amici Un istante più tardi, una luce accecante si propagò per tutta la stanza. Un arco di fiamma si formò all’interno della cabina, bruciò l’uomo e la bestia avvinghiati l’una all’altro e si trasformò in una miriade di coriandoli infuocati. Un altro raggio di luce arrivò dal soffitto e parve arroventare il metallo che brucia gli altri metalli. Quest’ultimo assorbì le proprietà del raggio e assunse un colore rosso fuoco. Il Dottor Chances si alzò allora da terra, radunò i ragazzi spiegando loro la gravità della situazione. Venite. Dobbiamo fuggire da qua. E in fretta. Biascicò in lingua inglese ma con smaccato accento austriaco. Gilbert ed i ragazzi non se lo fecero ripetere due volte e salirono le scale della cantina insieme al Dottore. Ebbero anche la forte sensazione di essere seguiti ma nessuna delle bestie presenti nel laboratorio riuscì ad uscirne. Viva. Arrivati nel salone di Casa Chances lo strano gruppo formato dai ragazzi e dal padrone di casa proseguì verso l’esterno. Si ripararono dietro un piccolo terrapieno ed un solo istante più tardi una forte esplosione sconvolse tutto il quartiere. Dal punto dell’esplosione il raggio luminoso che proveniva dal cielo cominciò a cambiare colore e a diventare verde. Una nebbia calda, spessa ed umida si propagò istantaneamente e raggiunse i ragazzi. Dopo un primo istante di smarrimento, i giovani scozzesi non furono in grado di udire più nulla. La fitta e densa coltre verdognola si propagò dalla zona dell’esplosione e avanzò. In breve tempo occupò tutto lo spazio visivo del quartiere. La sua velocità di trasferimento era vertiginosa. Nessuno ad Edimburgo fece in tempo ad accorgersi che la nebbia stava oscurando il cielo in quanto nello stesso preciso momento era avvolto inconsapevolmente da quello strano fenomeno atmosferico. Poi, dopo la capitale della Scozia, fu la volta di tutte le altre città e nazioni europee. Nessuno ebbe modo di reagire o anche solo di capire cosa stesse accadendo. Molto semplicemente, la nebbia verde si stava sostituendo all'ossigeno, vitale per i nostri polmoni e la vita in genere, con una rapidità impressionante. Nel giro di poche decine di secondi l'atmosfera terrestre sparì. Al suo posto una bruma limacciosa di colore verdognolo cambiò i connotati al nostro pianeta. Tutto fu repentino. La nuova atmosfera impediva ai raggi solari di filtrare in essa e ciò avrebbe provocato un brusco cambio di temperatura. Tuttavia, le cose non andarono così. La nebbia era sufficientemente calda da impedire agli esseri umani di morire congelati. Essa non era venefica e, a parte un gran torpore, una sensazione di stordimento, non procurò alcun danno ad anima viva. Tutti gli esseri viventi sprofondarono in un sonno innaturale. Questa situazione si protrasse per almeno un paio d’ore. Poi, la nebbia si diradò e, seppur lentamente, tornò a lasciare all'ossigeno dell'atmosfera tutto lo spazio che gli spettava. I raggi del sole cominciarono a filtrare tra la coltre della spessa nebbia ed a raggiungere il suolo terrestre e le palpebre degli esseri umani. Gli occhi si aprirono. Le palpebre tornarono a sbattere e gli individui si svegliarono dal sonno che li aveva colti così velocemente. Quando la nebbia sparì in modo completo, come se fosse evaporata o trasmigrata verso altre zone dell'universo, gli umani si guardarono attorno per capire cosa fosse successo. Sembrava che non vi fosse stato alcun cambiamento. Tutto sembrava al suo posto. Tutto pareva essere rimasto esattamente come prima. O quasi. Dapprima la gente pensò che il sonno avesse causato grossi guai alla vista. Qualcosa che non sembrava per niente normale c'era. Le dimensioni. Le piante, le case, gli oggetti, ogni cosa pareva essere diventata più grande del dovuto. I fiumi, il mare, i corsi d'acqua, avevano raggiunto delle grandezze superiori a quelle di un tempo, diciamo prima del fenomeno della nebbia verdognola. Gilbert, Lorelay, Audrey e tutti gli altri ragazzi si svegliarono con un forte mal di testa e percepirono che qualcosa di grave era appena accaduto.

lunedì 21 aprile 2014

La notte perfetta

Tratto dal libro Robinson Jr. di Tomatis Pier Giorgio (https://www.flickr.com/photos/120332833@N02/with/13147524435/) IV Capitolo La notte perfetta
Si arrivò così alla notte più importante per la storia del Clan Keith e, a detta di molti suoi membri, di tutto il mondo. La sveglia sarebbe stata data dalla sorveglianza durante il cambio della guardia. Gli uomini che smontavano dal turno, al loro ritorno alla grotta rifugio, avrebbero dato inizio alle operazioni. Ovviamente, coloro che incominciavano il turno di guardia e chi lo aveva appena terminato non partecipavano alla missione. L’eccitazione per l’evento che doveva scuotere le fondamenta di quel piccolo mondo era tale che le guardie non faticarono molto a destare i propri compagni, di solito sempre assonnati e svogliati quando si trattava di scendere dai letti a castello. Probabilmente, una buona parte dei membri del Clan non aveva chiuso occhio, elettrizzato dall’esperienza storica che si avviava ad incominciare. Tutti gli uomini che partecipavano alla missione, tranne le nove guardie (che quel giorno erano Zlatan, Clint, Bernard, Donald, Burt, Winston, e le donne Susan, Jennifer e Mandy) si lavarono con l’acqua di una fontana sorgiva. I suoi freddi zampilli, al mattino, erano sempre occasione di scherzi e risate. Tutto ciò, sotto gli occhi attenti di Alan (il decimo a non partecipare alla sortita), veniva visto con benevolenza. Serviva a riattivare più in fretta la circolazione. Il gruppo di coraggiosi cominciò a vestirsi e ad equipaggiarsi. Hugh e Peter, che avevano dormito nel capanno, distribuirono fucili e pistole per tutti. Le migliori armi da fuoco, scelte tra quelle custodite nel piccolo arsenale del capanno, vennero destinate ad ogni membro del Clan. L’operazione fu condotta velocemente e scivolò via senza intoppi. Ogni uomo, o donna, fu armato, sia se faceva parte di un gruppo che partiva per la missione, sia se doveva rimanere al campo. Il pericolo che si potesse subire un attacco durante la battaglia non era da sottovalutare. Peter calzò le due fondine che si era costruite al fondo dei pantaloni. Hugh lo osservò con un misto di curiosità e di disapprovazione. Tuttavia, Peter considerava le sue due pistole da duello una sorta di portafortuna, un aggancio simbolico con un passato che non avrebbe mai dimenticato. Oltre a ciò si preoccupò di armarsi con una pistola degna di tal nome. Scelse un Revolver Colt Python 4. Nonostante in Inghilterra, per le misure antiterrorismo, fosse difficile procurarsi delle armi, il Clan Keith, che evidentemente sapeva bene dove cercare, anche dopo il disastro, non ebbe grosse difficoltà a reperire pistole e fucili semplici da usare per la caccia e per la difesa del territorio. Quel giorno avrebbe incominciato ad utilizzarle per uno scopo differente: la riconquista di un monumento nazionale. E chissà… magari di un continente e di un pianeta. Tutti i membri del Clan si disposero davanti ad Alan ed alle grotte-rifugio per l’ultimo saluto prima della partenza. In un silenzio scaramantico, le lacrime di commozione scesero copiose da parecchi occhi. Alla missione partecipavano indistintamente uomini e donne. Solo i bambini ne erano stati esentati. Nonostante la sveglia li avesse volutamente evitati, alcuni di loro si erano alzati e vollero salutare a loro modo la partenza. Tra di essi c’erano Eleanor e Sonja. La prima salutò il padre compunta e distaccata, la seconda abbracciò Peter fortemente quasi come se non dovesse più tornare e si mise a piangere. Lesley osservò quella scena con curiosità e un po’ d’invidia. Non riusciva a capacitarsi di come quell’oscuro e silenzioso uomo avesse potuto far breccia nel cuore di Sonja, che avesse potuto conquistare l’affetto di una bambina tanto tormentata dai traumi del passato. Peter rassicurò la piccina garantendole che avrebbe fatto presto ritorno al rifugio e che l’avrebbe accompagnata per mano dentro le mura del Castello, nella loro nuova casa. I membri del Clan che sentirono quelle parole si gonfiarono il petto d’orgoglio. Era esattamente ciò che stavano pensando in quel momento. Gli uomini lasciarono infine il campo e si avviarono verso il sentiero che li avrebbe portati ad Edimburgo. Prima di giungere ad assaltare il Castello il Clan Keith doveva sconfinare in territori sorvegliati da gruppi rivali. Il piano di azione, modificato per l’occasione, prevedeva quel giorno l’avanzata di un primo gruppo in avanscoperta, a cui ne sarebbero seguiti altri due: il secondo (quello di Mortimer) ed il terzo (quello che avrebbe dovuto essere capitanato da Hutchinson e che, invece, fu affidato a Kurt). Nel primo partirono in quattro. Facevano parte di quel piccolo drappello di audaci la guida Sean Grant, il cervellone Hugh Hume, il dinamico Hutchinson Hay e Peter Cruise, del secondo Leopold, Tom, Richard, Daniel, David, Jack, Lesley, del terzo, invece, Christopher, Christian, George, William, Johnny, Vicky ed Evelyn. La guida, con i suoi attuali compagni si avviò deciso lungo il sentiero con una modesta torcia che si era costruito da solo. Aveva aggiunto alla sommità del legno una sorta di paralume in metallo trovato chissà dove in una delle scorribande precedenti. Lui e gli altri scesero dai costoni percorrendo i vecchi sentieri. Si spostarono sfruttando le ultime ore di oscurità notturna onde evitare sorprese con i rivali o i Fuochi Fatui. Arrivarono nei dintorni di Lammermuir dopo circa un paio d’ore di cammino. Nessuno udì alcun rumore, ne vide la sagoma di esseri umani. Si avvicinarono agli anfratti nelle rocce, agli alberi di alto fusto ma … nulla. Il piccolo territorio del Clan Macgovern sembrava deserto. Sean, di solito sempre silenzioso, ruppe con ogni atteggiamento di cautela e con la sua tradizionale prudenza. -Fermi.- Ordinò ai suoi tre compagni. -Che cosa c’è, Sean? Cosa hai visto?- Domandò frenetico Hugh. -Sarebbe più opportuno chiedermi che cosa non ho visto.- Rispose Sean in modo sibillino. Hugh, Hutchinson e Peter rimasero interdetti. -Ricordate la sortita di ieri? Ebbene, notando che qualcosa non quadrava ho deviato leggermente dal percorso e…- Soggiunse un enigmatico Sean. -...e? Su. Non tenerci sulle spine, Sean.- Ribatté seccato Hutchinson. -...e, beh, vedete quel costone a poche yarde da noi?- Domandò la guida. -Certo, che la vediamo.- Replicò Hugh. -Ebbene, quello è il punto in cui era appostata una guardia del Clan Macgovern… e come vedete ora non c’è.- Esclamò Sean. Hugh, Hutchinson e Peter si guardarono intorno ma non videro traccia di alcun appostamento umano per la sorveglianza di un campo di sopravvissuti. -Ti starai sbagliando.- Provò ad immaginare Hugh. -Non mi sto sbagliando.- Rispose prontamente Sean. -Avranno spostato la guardia in un altro punto.- Incalzò Hutchinson. -Credo proprio che sia impossibile.- Lo disilluse Sean. -Sarà stata male la guardia. Un malore improvviso.- Ipotizzò Hugh. -Avrebbe ottenuto il cambio in anticipo.- Sean tolse il campo ad ogni speranza. -Sarà in atto una sortita.- Disse un possibilista Hutchinson. -A maggior ragione la sicurezza avrebbe dovuto essere rafforzata.- Ribatté con forza e decisione Sean. -Può darsi abbiano subito un attacco.- Fece Peter. -E ciò che temo sia accaduto.- Replicò accondiscendente Sean. -Che cosa intendi fare?- Domandò Peter. -Lasceremo un messaggio sul sentiero. Un segnale che avverta gli altri gruppi dell’esistenza di un pericolo ed uno che indichi loro di fermarsi qui. Poi, noi proseguiremo verso il campo dei Macgovern e scopriremo quel che è accaduto. Se qualcosa li ha attaccati, domani potrebbe fare la stessa cosa con noi. Dobbiamo sapere cosa è successo. Solo così potremo essere preparati ad affrontare ogni minaccia.- Sentenziò Sean. Il quartetto si mosse, con circospezione, in direzione del casolare che, solo il giorno precedente, Peter aveva visto in lontananza con il suo binocolo. La casa era in perfetta conservazione. Qualunque cosa avesse attaccato il campo non aveva danneggiato nulla. Una volta arrivati nel piazzale ci si rese conto che la sensazione di Sean si stava traducendo in una terribile realtà. Non si sentiva alcun rumore provenire dalla casa di fronte. E se russavano solamente la meta di quanto russavano i nostri, pensò Peter, avremmo già dovuto ascoltare un rumore d’inferno. Ne si scorgeva alcun movimento all’interno di quel casolare. Sbirciando attraverso i vetri delle finestre del piano terreno si videro solamente credenze ed oggetti tipici di una cucina. Sean spalancò il vecchio portone di legno dell’ingresso aprendolo sferrando un poderoso calcio all’altezza della serratura, la quale si ruppe e cadde in terra per effetto del colpo. Non si sentiva alcun rumore provenire dalle piccole stanze della casa. Le solide e spesse mura di pietra erano ancora integre ed un camino con focolare aperto aveva ancora rosse e fumanti le braci di un fuoco acceso qualche ora prima. Il quartetto visitò ogni stanza ma non trovò traccia di presenza di un essere umano. I letti per la notte erano stati approntati con lenzuola e coperte ma erano vuoti e ancora freddi. Rimaneva la vecchia stalla dal tetto parzialmente sfondato. Il quartetto si mosse all’unisono e si avviò verso quella direzione. Essa si trovava a circa un centinaio di yarde di distanza, in un pianoro leggermente rialzato rispetto al casolare. Hugh, Peter, Hutchinson e Sean si appostarono vicino al portone d’ingresso seduti in terra e con le pistole in pugno, allo scopo di penetrare nell’edificio con velocità e sorpresa e capire cosa fosse successo. Tutti si guardarono negli occhi e ad un cenno del viso di Hugh fecero irruzione nello stabile, armi in pugno. La scena che si presentò loro davanti agli occhi fu di quelle capaci di toglierti il respiro per più di una decina di secondi. I componenti del Clan Macgovern erano stati impalati a testa in giù e rantolavano feriti con armi da taglio in tutte le parti del corpo. Il loro sangue non colava a fiotti sulla nuda terra ma veniva raccolta in grandi bacili di terracotta arrivati li chissà come. C’erano le tre guardie. Erano riconoscibili dalla mimetica militare, anche se ridotta quasi tutta in brandelli. Brian, Buck, Cole, l’uomo alto ed ossuto, quello con la cicatrice sulla guancia, e poi una donna robusta con i capelli lisci e biondi, un uomo grasso e barbuto, un altro quasi calvo, uno di piccola statura, tutti stavano agonizzando e rantolando, feriti mortalmente con armi bianche. Anche gli animali giacevano nelle identiche condizioni. Le carcasse di bovini, ovini, suini, caprini, riverse sul terrapieno, contribuivano a rendere il fetore del luogo infinitamente più insopportabile. Una decina di Fuochi Fatui, dell’altezza di un paio di metri circa, con indosso le solite scarne vesti simili ai sai dei frati, assisteva alla scena con blasfema crudeltà. Accortisi dell’arrivo dei quattro componenti del Clan Keith si voltarono lentamente. I nuovi arrivati non sembravano destare la benché minima preoccupazione in quegli esseri immondi ed apparentemente privi di sentimenti di pietà nei confronti dei popoli vinti. Il respiro di Peter si fece sempre più affannoso. Hugh sgranò gli occhi in modo che sembrava gli stessero per uscire dalle orbite. Sean si inginocchiò ed il suo viso si dipinse dell’odio che provava per gli alieni. Hutchinson alzò il braccio destro, premette il grilletto e la sua pistola sparò. Il colpo non mancò il bersaglio. Tuttavia, l’extraterrestre colpito non venne scosso più di tanto e continuò ad avanzare. I Fuochi Fatui alzarono lentamente le loro braccia armate e si scatenò l’inferno. Una gragnuola di colpi delle due opposte fazioni infuocarono le fatiscenti strutture della vecchia stalla abbandonata del Clan Macgovern. Dopo pochi secondi le fiamme si levarono altissime. Nonostante la costruzione non fosse molto estesa, il combattimento durò per parecchi minuti, bloccando i contendenti sulle reciproche posizioni. Poi, i Fuochi Fatui incominciarono ad avanzare inesorabilmente verso il quartetto. Peter perse il suo revolver nel cercare riparo. A Hugh prese fuoco il cappuccio che aveva portato per difendersi dal freddo. Lo gettò via immediatamente, ed anche lui riuscì a trovare temporaneo rifugio dietro un lastrone di ferro. Hutchinson tenne la posizione e continuò a sparare senza frenare l’avanzata lenta, ma costante dei Fuochi Fatui. Sean fece cascare pesanti catene e carrucole su di loro cercando di tenersi al riparo dalla vista e dal fuoco nemico. -Peter, cerca di farti strada verso l’esterno.- Gridò Hugh. -Non posso muovermi di qua. Sono bloccato. Stanno sparando solo in questa direzione.- Provò a spiegare Peter. -Riesci a coprirci la fuga Hutchinson?- Chiese Sean. -Non funziona. Sembrano immuni ai nostri colpi. Non vanno giù. Non cascano giù questi maledetti lumaconi azzurrognoli.- Urlò a squarciagola Hutchinson. -Dobbiamo tentare qualcosa o siamo tutti perduti.- Incalzò Hugh. -Non riusciamo ne a tornare indietro ne ad andare avanti. Siamo imbottigliati. E loro continuano ad avanzare.- Strillò Sean. -Voglio provarci io.- Esclamò Peter. -No. Fermati. Sarebbe un suicidio.- Gridò Hugh. A quel punto Peter si alzò in piedi, deciso a giocarsi il tutto per tutto. Impugnò le due pistole da duello. Si accertò che fossero cariche. Pregò che potessero essere ancora funzionanti. Si voltò ed uscì dalla sua posizione con l’intento di sparare i suoi quattro colpi all’impazzata e gettandosi fisicamente verso gli alieni, sperando di riuscire indenne dalla prima raffica nemica e arrivando così vicino da poter scatenare un corpo a corpo. Il colpo di una lanciaraggi lo prese in pieno. I suoi compagni lo videro illuminarsi come una torcia e cadere in terra. Il tempo parve come arrestarsi per qualche secondo. Le attenzioni di tutti i contendenti si concentrarono verso il suo corpo. Nonostante fosse caduto in terra, Peter impugnava ancora le sue due storiche pistole, in legno e ferro, vecchi di secoli. I suoi occhi chiusi si riaprirono. Le sue dita si aggrapparono ai due grilletti. Si alzò e sparò in direzione del gruppo di extraterrestri. Colpì al collo due Fuochi Fatui, i quali, contorcendosi per il dolore, stramazzarono al suolo. Gli altri si bloccarono sorpresi. Evidentemente non si aspettavano che Peter potesse essere sopravvissuto al colpo della loro arma e, ancor più sorprendente, avesse potuto uccidere due di loro. L’umano si lanciò in una folle corsa, sfruttando la sorpresa generale. Arrancò il braccio di un Fuoco Fatuo che stava sparando un colpo con la sua micidiale arma e lo diresse verso altri due alieni. Essi vennero spazzati via fra urla bestiali e raccapriccianti. Fece nuovamente la stessa cosa con un altro gruppo di avversari i quali vennero presto avvolti dalle fiamme prima di morire. Quindi strappò le armi dalle mani dell’alieno il quale si accasciò a terra urlando di dolore. Peter vide con sorpresa che il Fuoco Fatuo non aveva le mani e che le sue sputafuoco erano incastonate come moncherini all’estremità delle braccia. Quando il Clan rinvenne le sputafuoco nell’abitazione di Peter, il Fuoco Fatuo al quale le avevano sottratte era morto e nessuno si accorse delle condizioni dei suoi arti e della mancanza delle mani. Pensarono tutti che il crollo della palazzina fosse stata la causa di tali menomazioni. Arrivato Hugh, il quale lo incitava a lasciare il posto, il tetto fatto di travi ormai marce rischiava di crollare da un momento all’altro, gli diede le armi, afferrò l’alieno per il grosso testone rotondo e se lo trascinò letteralmente all’esterno. Attirati dalla luce del fuoco arrivarono anche gli altri due gruppi. La prima persona a giungere sul posto fu Lesley e non credette ai propri occhi. La stalla era completamente avvolta dalle fiamme e le urla degli extraterrestri morenti fecero accapponare la pelle a tutti i presenti. Un suono stridulo, simile a quello di una sega circolare quando taglia del legno, si propagò nell’aria rendendo confuse ed irreali le immagini di Hugh, Hutchinson e Sean, i quali cercarono di utilizzare l’acqua di un pozzo per spegnere l’incendio. Si aiutarono con una pompa di gomma ed un sistema di pescaggio manuale per cercare di spruzzare un getto sufficiente fin sopra le alte lingue di fuoco. I nuovi arrivati cominciarono a darsi da fare prendendo frasche con foglie verdi e spensero i focolai che cercavano di formarsi oltre il rogo della stalla. Al centro di tutti vi era Peter. In piedi, madido di sudore, con in mano due sputafuoco aliene ed ai piedi un essere umanoide, rannicchiato in una posizione fetale e ancora dolorante alle estremità degli arti superiori. Aveva quasi del tutto perduto il proprio indumento e si poteva così osservare la strana conformazione della sua pelle. Grinzosa, glabra, essa assomigliava terribilmente a quella di un elefante. Ma nulla di simile si era visto sulla Terra per quanto riguardava la testa. Essa era costituita da una massa compatta di struttura ovoidale dai colori meno netti. I Fuochi Fatui erano azzurrognoli. Unica eccezione, appunto, era la testa. Quest’ultima non aveva un colore ben definito, era più una miscela di rosso, marrone, rosa e blu, disposta a chiazze, a macchia di leopardo. Quell’alieno sofferente ai piedi di un Peter provato ma trionfante segnò per sempre il cuore e lo spirito di ogni membro del Clan. Sembrò di vivere una storia da leggenda ed era difficile credere che non lo fosse. Quando Peter parlò, anche il fuoco parve ammutolirsi. -Hugh!- Peter cercò di attirare l’attenzione del Professore. -Si, Peter?- Chiese Hugh come presentendo che l’amico aveva in mente qualcosa per uscire da quella nefasta situazione. -Ricordi quello che mi dicesti sul libro che colpì Elizabeth?- Domandò Peter. Hugh rifletté per qualche istante sulle parole dell’amico, cercando di comprendere che cosa stesse cercando di suggerirgli. Poi, capì. Ed un sorriso compiaciuto si dipinse sul suo volto scavato e tirato per la fatica. -Geniale.- Esclamò Hugh e chiamò a sé Mortimer e Kurt, ai quali sottrasse momentaneamente le lanciaraggi. -E tu come farai?- Domandò il professore. -Ho un’idea.- Rispose prontamente Peter. Detto ciò, entrò nel vecchio casolare, aprì rumorosamente alcuni cassetti delle credenze della cucina, prese una manciata di cucchiaini e li piegò fino a formare un angolo retto. Quindi uscì e raggiunse Hugh. -Presto. Rifugiatevi dietro la casa. Tutti quanti.- Esclamò Hugh. -Lasciate stare l’acqua. Se avremo ragione, tra pochi istanti sarà tutto finito.- Fece Peter, non nascondendo una certa eccitazione. I membri del Clan obbedirono senza riluttanza. Sapevano benissimo che sarebbe stato quasi impossibile domare quell’incendio, il quale rischiava di propagarsi in tutti i boschi della zona, con quell’attrezzatura di fortuna. Se Hugh e Peter, i quali sembravano agire con perfetta sintonia, avevano un’idea per salvare la situazione, nessuno lo avrebbe impedito. Quando tutti si furono appostati dietro le solide mura della casa, i due amici alzarono le quattro sputafuoco, due a testa, puntando verso un costone roccioso. Si guardarono negli occhi e, quando Hugh diede il via, spararono. La montagna parve urlare dal dolore e per un intero minuto non si vide ne sentì più nulla. I secondi scorrevano inesorabilmente lenti e i membri del Clan si domandarono se l’idea di Hugh e Peter avesse avuto successo. Gli stessi due amici pregarono il loro Dio che l’incendio si fosse finalmente placato. Trascorso quell’interminabile serie di secondi, il buio tornò ad avvolgere quel piccolo angolo di mondo. Hugh e Peter, sorridendo per la felicità, si abbracciarono festanti, saltarono, urlarono come pazzi invasati. A quel punto, anche gli altri compagni si unirono ai festeggiamenti e li raggiunsero. La polvere, la sabbia, lo spostamento d’aria, prodotte dai colpi sparati dai due amici avevano soffocato le fiamme e restituito a quelle montagne la loro splendente immagine di sempre. -Sei un ottimo ascoltatore… anche tu.- Disse Hugh rivolgendosi all’amico. -Sei un ottimo professore… anche tu.- Contraccambiò con grande sincerità Peter. Il resto del Clan, Lesley compresa, non capirono a cosa stessero alludendo i due amici ma si bearono per lo stupendo risultato raggiunto. L’incendio era stato spento, la missione era ancora in corso, la strada era sgombra, il gruppo aveva guadagnato due lanciaraggi in più. C’era molto di cui essere soddisfatti. Se il buon giorno si vede dal mattino, quello che sarebbe seguito doveva essere a dir poco trionfale. Peter ordinò che un quartetto di componenti del gruppo di Mortimer ritornasse al campo e sorvegliasse il prigioniero. Il loro compito sarebbe stato, dopo un’ora circa, quello di portare tutti i rimanenti membri del Clan, bambini compresi, sulla strada per il Castello. Di questo gruppo, con sua enorme felicità, avrebbe fatto parte anche Mortimer. Gli altri membri che Peter e Hugh scelsero, dopo un conciliabolo con Sean e Hutchinson, furono Jack, Vicky e George. Particolare attenzione, Peter rivolse alla sorveglianza del prigioniero e si sentì di suggerire qualcosa ai partenti. -Colpitelo al collo, se se ne presenta la necessità.- Parlò Peter con un carisma che cresceva a vista d’occhio. Detto questo incitò gli altri a seguire lui e gli altri amici nella presa del Castello, tra il tripudio generale. Mortimer, che prima di andare aveva cercato di ricordare a tutti la grande lungimiranza del Capo Clan fu zittito e messo in minoranza dalla folla e dagli altri membri del Consiglio. Tutti seguirono i due amici nella strada per il Castello. Impiegarono alcune ore ad arrivare sul posto e Peter invitò la sua gente a procedere in silenzio e con cautela. La zona sembrava calma, tuttavia entrambi i capofila si mossero con circospezione, proprio come avrebbe dovuto essere sin dall’inizio: sempre un passo avanti agli altri. I membri del Clan, con atteggiamento fiero e pronto alla pugna, giunsero alle porte del vecchio maniero. Ne costeggiarono l’imponente muraglione. Il recinto era protetto da torrette squadrate e pentagonali, munite di fenditure. Il muro a speroni era una vera e propria struttura di sostruzione per la cinta di difesa. Difficile ipotizzare che gli extraterrestri potessero utilizzare quella costruzione fatta su misura per gli umani per dar vita ad una micidiale imboscata. Lanciarono funi con pesi e si arrampicarono fino ad arrivare ai camminamenti delle sentinelle. Penetrarono all’interno ma non trovarono alcun tipo di resistenza. Il Castello era incustodito. La battaglia vinta ancor prima di incominciarla. Felici, urlarono di gioia fecero festa. La prima, vera, da lungo tempo. Qualcuno tirò fuori dallo zaino alcune stoffe e tutti, improvvisamente, si zittirono. Si osservò in religioso silenzio quanto stava accadendo. Christian tirò verso il basso una corda agganciata ad un pennone sul piazzale. Tolse il drappo che era sistemato in cima e vi legò il nuovo. Era un tessuto dai colori verde e blu, a quadri incrociati. Era il tartan del Clan. Fu issato fin sulla cima e lentamente, quasi a tempo di musica, uno ad uno, i presenti sul piazzale scandirono con impeto sempre crescente le parole Truth conquers -Truth conquers…- i combattenti urlarono il proprio motto in lingua inglese, forti e fieri, e con ciò riaffermando il diritto di vivere secondo le proprie regole, nei luoghi dove erano nati e dove avevano vissuto i loro padri e innumerevoli avi di generazioni precedenti. Il suono di quelle parole incitava quella gente orgogliosa della propria terra e delle proprie tradizioni In Scozia nessuno aveva mai usato, quale portacolori, un tartan altrui. In altri tempi, se proprio non se ne possedeva uno si sarebbe usato uno di quelli etichettati come "liberi" o molto più testardamente se ne sarebbe creato uno personale e lo si sarebbe registrato presso la Scottish Tartan Society. Lo stupendo risultato che la storia del Clan e l’attacco alieno avevano ottenuto non era la tolleranza, e nemmeno la convivenza bensì la coesione. In nome di un obiettivo comune accettato e fortemente voluto da tutti si erano cementati i rapporti personali di un manipolo di strenui difensori della razza umana. Il motto del Clan Keith è (in latino) Veritas vincit/la verità vince. Peter imparò sulla sua pelle cosa stesse a significare. Fu un trionfo. Per tutta la seguente parte della giornata trasferirono uomini e cose dal vecchio rifugio al Castello. Seppellirono ciò che rimaneva dei cadaveri del Clan Macgovern e ne ereditarono le proprietà rimaste nel vecchio casolare. L’eccitazione di quello sparuto gruppo di scozzesi salì alle stelle. Passarono i giorni e le settimane. A Hugh, ovviamente, non gli riuscì di stabilire una comunicazione con l’alieno, vuoi per la complessità e la diversità del linguaggio, vuoi perché esso era costantemente preda di dolori fortissimi agli arti. Concluse che le armi dei Fuochi Fatui fossero in realtà delle appendici biomeccaniche innestate su terminali nervosi. Peter, dal canto suo, venne acclamato come un eroe e le sue gesta avevano ottenuto l’effetto di oscurare il carisma di Keith e la sua leadership nel Clan. La gelosia di Alan nei suoi confronti diventava ogni giorno che passava sempre più palese. Tuttavia, sotto la spinta di Peter, il Clan decise di dare un seguito alla scorribanda di quella notte e le iniziative contro i Fuochi Fatui divennero prerogativa principale, tanto che si ottennero due grossi risultati. Alcuni gruppi di umani sopravvissuti si unirono a Hugh e compagni e una parte importante di Edimburgo fu liberata dal giogo alieno. La prima zona, fra tutte quelle strappate al dominio extraterrestre, fu la zona del porto. L’obiettivo di Peter era chiaro: cercare gli umani fatti prigionieri nella speranza di ritrovare la sua famiglia. La strategia offensiva del Clan era colpisci e terrorizza. Attacchi isolati, accerchiamento del nemico e sottrazione delle preziose armi divennero una costante nelle azioni del gruppo. I Fuochi Fatui venivano lasciati in terra, doloranti, allo scopo di terrorizzare i propri compagni. In breve tempo, venne costituito un arsenale ed un vero e proprio esercito. I membri del gruppo prendevano sempre più dimestichezza con l’uso delle micidiali lancia raggi aliene. Essi scoprirono che il loro principio era simile a quella del forno a microonde. Veniva prodotta una tale quantità di calore che gli oggetti e le creature colpite venivano spazzate via in modo pirotecnico. I bambini del Clan, intanto, crescevano e nei loro giochi era Peter l’eroe senza macchia e senza paura, il cacciatore di alieni, l’uomo che poteva essere colpito dalle sputafuoco senza subire danni. Sonja Davidson, la più affezionata di loro, stabilì con lui un ottimo rapporto tanto che, per un po’ di tempo, ella parve dimenticare la perdita dei propri genitori e Peter sentì meno pesantemente la mancanza dei suoi due figli. Il cibo cominciava ad abbondare. La possibilità di accedere ai magazzini ed alle celle frigorifere della città non ancora distrutte, anche se ormai da tempo prive di energia, e l’aumento del territorio e del suo controllo, facevano sì che il Clan Keith potesse essere in grado di imporsi quale gruppo coagulante per una seria forza di resistenza all’invasione aliena. Alan, invece, mano a mano che il suo ruolo perdeva di autorità, aveva cominciato a reclutare persone per formare un suo gruppo di potere all’interno del Clan. Hugh e Peter formavano di fatto il gruppo dirigente, insieme a Sean e ad Hutchinson, e ad essi si aggiunse Lesley, la quale con le sue conoscenze mediche assumeva un ruolo fondamentale nelle decisioni che venivano prese. Le notti di festeggiamenti si susseguirono una dopo l’altra. Era difficile non entusiasmarsi per i risultati raggiunti e per le quotidiane dimostrazioni che l’umanità, data per spacciata dagli invasori, stava risorgendo con un impeto ed un furore in grado di travolgere qualunque avversario. Le dimostrazioni che, nonostante la guerra, nonostante i combattimenti, nonostante la ferocia degli assalti, la parte più nobile dell’animo umano trovava eguale spazio e dinamica applicazione erano sempre più frequenti. I nuovi membri, raccolti in condizioni spesso precarie, avevano bisogno di una cura, di un amore, di un rispetto, che Lesley, Mandy e il pool di persone che avevano formato, con il beneplacito del nuovo Gran Consiglio del Clan, erano sempre più in grado di dare. Peter guardava compiaciuto alcuni risultati straordinari ottenuti dal Clan. Un velo di tristezza stringeva il suo cuore in una forte morsa quando disperava di poter ritrovare sua moglie ed i suoi due figli, che non vedeva da troppo tempo. Una sera, mentre si trovava seduto in terra, sul piazzale del Castello, durante un fuoco di bivacco ed una festa danzante del Clan, le sue meditazioni vennero interrotte da una voce amica. -Ciao Peter.- Disse Sonja con voce squillante. -Ciao Sonja- Rispose Peter sorridendo. -Pensi che un giorno se ne andranno?- Domandò la bimba saltando sulle sue ginocchia, in modo delicato, insieme a Miss Suzy. -Solo quando ciò che perderanno con l’invasione risulterà essere maggiore di ciò che guadagnerebbero. Ti faccio un esempio. A te piacciono i dolci?- Chiese Peter con determinazione. -Si. Per merenda, mia mamma e cucinava sempre le cialde alla marmellata di pere.– Rispose Sonja con un velo di tristezza. -Bene. Se tu ti sporgevi un po’ troppo verso il forno e nel prendere una di queste cialde ti scottavi, perché era ancora troppo calda, ritiravi la mano, giusto?- Fece Peter pungolando la bimba. -Si. Immagino di sì. Vuoi dire che se noi saremo sempre caldi loro torneranno da dove sono venuti?- Chiese Sonja con interesse. -Una cosa del genere.- Rispose rilassato Peter. Sonja rifletté per alcuni istanti sulle parole di Peter. Poi con il suo solito atteggiamento vispo e sbarazzino riprese il colloquio. -Posso dirti una cosa?- Domandò Sonja quasi implorando. -Ma certo.- Rispose confuso Peter, non capendo che cosa volesse dire la piccina. -Sono contenta che ci sia tu a cucinarci le cialde.– Concluse sorprendentemente Sonja. Peter rise come non aveva più fatto da diversi mesi. La bimba, felice, si alzò e andò a raggiungere i suoi compagni più giovani. La forte amicizia con Peter le aveva fatto guadagnare un grande rispetto da parte loro. Anche Lesley, la quale aveva udito ogni parola del loro dialogo si avvicinò e si sedette di fianco a Peter, il quale sembrava ancora assorto nei propri pensieri. -Splendida luna, questa sera.- Esordì la donna. Peter si accorse solo in quel momento del medico. Alzò lo sguardo verso il satellite terrestre. -Sì. È una delle poche cose che gli alieni non ci hanno rubato.- Replicò serenamente. Lesley rimase interdetta. La risposta di Peter l’aveva colta di sorpresa. -Ma… come fai?- Domandò curiosa. -Prego?- Chiese a sua volta Peter che non aveva compreso il senso di quella strana domanda. -Voglio dire… come riesci ad essere così sicuro di te, così coraggioso ed eroico nelle situazioni critiche, ed anche…- Si interruppe la donna. -… anche?- La incalzò Peter. -… così sensibile. Sonja è entusiasta di te e non perché sei il cacciatore di alieni. Perché riesci ad infonderle sicurezza, serenità. Ognuno di noi ha perso qualcuno. Sonja non ha perso solo i genitori. Ha perduto il sorriso, la fiducia in se stessa. Si sveglia di notte in preda a degli incubi, spesso urlando. Questo prima di incontrare te. Tu le hai restituito la voglia di continuare a vivere.- Concluse Lesley. Peter si voltò per vedere quanto stava accadendo le sue spalle. La gente del Clan continuava a ridere ed a ballare al tepore del fuoco ed alla luce della luna. -Avanti, il tuo medico dice che hai bisogno di dormire. Per oggi le emozioni sono state sufficienti.- Riprese la donna. Detto ciò, prese Peter, gli piegò la schiena fino a coricarlo sull’erba. Quindi appoggiò il capo sul suo petto e distese una delle coperte di paille che erano state recuperate quella notte e chiuse gli occhi, addormentandosi accanto a lui. Peter sorrise compiaciuto. Quella sarebbe stata una notte perfetta. Se solo Brooke, Harry e James fossero stati ancora vivi. Se gli alieni non fossero mai giunti sulla Terra

Da Todos Caballeros di Tomatis Pier Giorgio

Per vedere l'isbn e l'intero catalogo andate su (https://www.flickr.com/photos/120332833@N02)/ Capitolo 16/ L’ultima notte/
Quella che sarebbe stata la notte più scellerata che la città di Pinerolo avrebbe mai vissuta ebbe inizio proprio così. Con il fastidioso gracchiare del motore di un Vannette della Nettezza Urbana. Che cosa c'è agente? Ho superato i limiti di velocità o cosa? Chiese Luigi Gariglio ai carabinieri che lo avevano fermato ad un posto di blocco per i normali controlli stradali. Un normale controllo. Favorisca patente e libretto, per cortesia. Fu la richiesta dell’appuntato. Uh, oh... sì, certo. Si affannò Luigi cercando di prendere il portafogli dalla tasca dei pantaloni. Così ci fa in giro quest'ora di notte? Domandò l’appuntato. Ho finito tardi il mio giro perché ho mangiato pranzo e dormito a casa di un'amica... Allora vada pure tranquillamente a casa. E’ tutto a posto. Già. Però domattina mi toccherà svegliarmi presto. Inizio il giro normalmente. Sbuffò Luigi. Allora vorrà dire che dovrà andare subito a dormire… Suggerì l’appuntato. Erano all’incirca le otto di sera ed era l’ultima notte prima dello spoglio delle schede. Tutto procedeva normalmente in città e le tensioni delle ultime settimane parevano finalmente sopite. Luigi stava tornando a casa con il suo Vannette della nettezza urbana. Aldo diede una grande festa in una discoteca e si promise di ballare sino a tarda mattinata. Giacomo aveva organizzato una serata gastronomica, a base di polenta, salsicce e specialità tipiche piemontesi. Giovanni… Giovanni, invece, fece qualcosa di particolare. Fece visita a tutti i militari presenti ai seggi insieme al suo fido aiutante Oreste. Allora, ragazzi... tutto bene? Domandò Giovanni mentre Oreste studiava i locali e la disposizione dei soldati. Splendido. A nome di tutti volevamo ringraziarla per il regalo. Fu la risposta di un graduato. No. No. Nessun regalo. Si è trattato solo di un pensiero. Mi è venuto in mente che non ci prendiamo mai cura dei nostri soldati durante le elezioni. I nostri giovani. La spina dorsale della nazione. Coloro che nel momento più fragile della vita di una democrazia si ergono a baluardo invalicabile in sua difesa. Recitò Giovanni a memoria. Come parla bene, signor Stortis. Esclamò il graduato. Giovanni. Per voi sono... solo... Giovanni. Lo corresse il candidato Senatore. Non so se... possiamo... Disse con cautela. Oh, al diavolo. Dove sta scritto che non potete rivolgervi in tono colloquiale con un autorevole rappresentante della maggioranza. Tagliò corto Giovanni. Ma... sa, la par condicio. Confessò il graduato. E cioè? Chiese Giovanni, il quale udiva quelle parole per la prima volta in vita sua. Le pari opportunità... Spiegò il graduato. Delle pari opportunità io me ne infischio. Del resto, voi vedete qualche altro candidato che si è presentato a tenervi compagnia ed ad aiutarvi a sorvegliare il secchio questa sera? No. No signore. Credete forse che i miei rivali stiano prestando servizio per i bisognosi, che so... a fare da infermieri in un ospedale per bambini spalti c'è? Non credo proprio. Avranno festeggiato, mangiando squisitezze pagate dal partito (beati loro soggiunse tra i denti cercano di far risultare incomprensibili quelle parole). E poi avranno ballato con donne facoltose belle. Per tacere poi di cosa possono aver fatto dopo... mentre i nostri militari... niente. A stecchetto. Non è giusto. Argomentò Giovanni. Ha ragio... hai ragione, Giovanni. Hai perfettamente ragione. A noi la ronda e a loro la baraonda. È... crudele. Affermò il graduato, senza peli sulla lingua. Sì. È vero. E... cosa? Cos'è stato? Hai sentito anche tu? Mentì Giovanni allo scopo di verificare quanto fossero preparati i militari. No. Cosa? Confessò senza troppa preoccupazione. Un suono. Come di un corpo che strisciava. Continuò a mentire Giovanni. Dove? Chiese il graduato senza scomporsi. Là. Là in fondo. Indicò Giovanni. Dove? Domandò nuovamente il graduato. Vicino alle piante e all'erba alta. Finse Giovanni. Tutti guardarono in quella direzione. Il graduato puntò la torcia elettrica in quella direzione. Tutti tesero le orecchie, fuorché Oreste, il quale era più preoccupato di memorizzare la planimetria dei locali. Ma no. Probabilmente sarà stato un gatto. Affermò Giovanni. Ma certamente. E’ così. Disse il graduato sentendosi più sollevato. Il vecchio Luigi Gariglio fece una pausa nel suo racconto. I suoi due ospiti si accorsero che il suo viso pareva affaticato. Gli domandarono se gradiva interrompere per qualche minuto. Il vecchio bevve il suo bicchiere di vino e si acconsentì. Il giornalista ed il cameraman uscirono dall’appartamento e tornarono nel sottoscala. Vieni. Usciamo un minuto. Devo fare una telefonata. Disse Marco. Come vuoi. Fu la risposta di Gualtiero. Appena usciti dalla casa, i due uomini furono investiti dalla luce brillante dei raggi solari. Entrambi, con un movimento quasi sincrono, indossarono lentamente un paio di occhiali scuri. Marco, il giornalista, prese il cellulare e compose un numero. Una voce femminile rispose alla chiamata. Si. Pronto? Domandò una donna. Pronto? Cara? Fu la risposta di Marco. Ah, sei tu. Esclamò la donna. Sì. Volevo dirti che ho già fatto la commissione che mi avevi chiesto. Eh, si… ho pensato a quella cosuccia su mia madre. Disse il giornalista. Bene. Si congratulò la donna. Senti, volevo dirti che stasera farò tardi. Non ti secca. Vero? Chiese Marco, il quale dopo aver sentito dalla donna che la cosa non avrebbe creato alcun problema, salutò e chiuse la telefonata. Non sei un po’ preoccupato? Domandò Gualtiero. Per cosa? Rispose Marco sorpreso. Per il vecchio. Voglio dire… non mi sembra stia troppo bene. Spiegò Gualtiero. Non sono un medico. Se ce ne sarà bisogno, lo chiameremo. D’accordo? Chiese Marco. D’accordo. Assentì il giovane collega. I due uomini rientrarono chiudendo il portoncino d’ingresso. Salirono le scale e rientrarono nell’appartamento del vecchio. In effetti, Luigi Gariglio non aveva proprio una gran bella cera ma insistette per riprendere il suo racconto che ricominciò quando lui uscì presto quella mattina per il suo turno di lavoro. Erano in circa le tre e quaranta quando aprì il portoncino del palazzo di Corso Bosio, dove allora abitava. Tastò con le mani le tasche dei pantaloni onde assicurarsi di avere preso le chiavi dell'appartamento. Quelle del suo automezzo, un Vannette adibito al trasporto dei rifiuti, era d'uso tenerle dentro il cruscotto. Era a Pinerolo. Nessuno porta via un Vannette della nettezza urbana. Luigi entrò nell'abitacolo, cercò di schiarirsi gli occhi ancora annebbiati per il sonno. Allungò la mano destra, aprì il cruscotto e cominciò a cercare le chiavi di accensione. Niente. Stupito, riprovò. Ancora nulla. Impossibile, pensò. Se un ladro avesse cercato di rubargli il Vannette se ne sarebbe andato via con l'automezzo non con delle stupide chiavi. Cercò ancora. E ancora. E ancora. Nulla. Nel cruscotto non v’era nemmeno l'ombra delle chiavi. Provò a sforzare la memoria per ricordare se la sera prima le avesse messe in un posto diverso dal solito. Strano per uno come lui che generalmente era un abitudinario, persona estremamente precisa. Poi, sgomento, le vide, in bella mostra davanti a sé, nel quadro comando. Com'è possibile? Pensò. Sino ad allora non aveva mai fatto un errore del genere. bene. Una prima volta c'è sempre nella vita. Solo a Pinerolo puoi fare un errore di questo genere e trovare ancora il mezzo dove lo avevi lasciato. Beh... a dire il vero a Luigi pareva di vederlo parcheggiato un po' più avanti, almeno di una decina di metri. Il sonno gioca brutti scherzi e quella mattina sembrava farlo in modo particolare. Girò la chiavetta e diede gas. Il mezzo si mise in moto e l'operatore ecologico aperti. Nemmeno un minuto più tardi arrivò una Bmw. Alla guida c'era Giacomo e nel sedile accanto lui sedeva Rodolfo. L'auto si arrestò e si aprì la portiera. Ma sei sicuro che l'avevi parcheggiato qui? Chiese Giacomo preoccupato. Ti dico di sì. Era proprio qui, davanti a questo portone. Rispose Rodolfo che non si capacitava della cosa. E allora sei ancora più ubriaco del solito perché è laggiù. Disse Giacomo, indicando a circa una ventina di passi da li. Dove? Domandò Gualtiero, il quale non aveva ancora scorto l’automezzo. Là in fondo, dietro quella Citroen Picasso. Continuò ad indicare Giacomo. Impossibile. Esclamò Rodolfo. Impossibile ma si trova la. Guarda un po'. Le hai ancora le chiavi? Chiese il candidato Senatore, a quel punto decisamente più sollevato. Le ho lasciate inserite. Confessò candidamente Rodolfo. Sei pazzo? E se qualcuno ci rubava il mezzo? Ero praticamente rovinato. Come avrei potuto cavarmela? Si inquietò Giacomo. Siamo a Pinerolo. A chi vuoi che venga in mente di rubare un Vannette della nettezza urbana. Fu l’analisi di Rodolfo. Mi auguro che tu abbia ragione. Ti aspetto. Vai a controllare. Disse con piglio Giacomo. Vedrai che non mi sbaglio. Fu l’orgogliosa replica di Rodolfo. Rodolfo aprì la porta e si sedette sul sedile. Guardò nel quadro comando, alla ricerca della chiavetta ma non lo trovò. Allora? Non ho mica tempo da perdere. Lo incalzò Giacomo. Un momento. Disse Rodolfo cominciando a preoccuparsi. Rifletté qualche secondo. Si trovava a Pinerolo. Nessuno porta via un Vannette della nettezza urbana. Dopotutto, se un ladro avesse cercato di rubargli il mezzo, cosa che riteneva alquanto improbabile, se ne sarebbe andato via con esso, non con delle stupide chiavi. Tastò con le mani tra le scartoffie del cruscotto e lo trovò. Com'era possibile? Pensò. Ricordava benissimo di averle lasciate sul quadro solamente mezz'ora prima. Allora? Ti sei addormentato? Chiese Giacomo sempre più spazientito. Sono qui. Le chiavi. Le ho in mano. Esclamò Rodolfo, il quale non credeva ai propri occhi. Bene. Si congratulò Giacomo per lo scampato pericolo. Te lo avevo detto. Siamo o non siamo Pinerolo? Domandò retoricamente ma con poca convinzione. Allora, adesso posso andare. Ci vediamo domani alla grande festa. Disse Giacomo mentre avviava il motore della sua auto. Ci sarò. Replicò Rodolfo. Devi... Esclamò Giacomo scambiando un’occhiata d’intesa col suo collaboratore. Giacomo accelerò e sparì alla vista. Rodolfo rimase interdetto ancora per qualche istante, poi decise di non pensarci più e partì in direzione dei box. Nel frattempo Luigi giunse in via Garibaldi. Quando fu colto da un'improvvisa voglia di evacuare. Fermò il Vannette sul lato stazione ed attraversò la carreggiata. La sua destinazione era il vespasiano che si trova in Piazza Garibaldi. Entrò, si tirò giù i calzoni e cominciò liberarsi del pesante fardello. In quello stesso istante, Livio uscì di fretta dalla propria abitazione e vide il falso Vannette della nettezza urbana che aveva lasciato parcheggiato su quel lato di Via Garibaldi, a pochi metri dalla Stazione. Aldo entrò nella sua Hyundai rossa... Dai, cerchiamo di fare tutto velocemente e bene. Sussurrò Aldo. Sarà così e sarà eletto in Parlamento. Gli fece eco Livio. Dai, metti in moto ed andiamo. Suggerì Aldo. Livio entrò nell'abitacolo e prese a cercare la chiavetta che aveva lasciato nel cruscotto. Tastò e rovistò con crescente affanno. Allora, che stai aspettando? Chiese Aldo. Un attimo. Un attimo. Disse Livio nel vano tentativo di raccapezzarsi e di rammentare dove avesse messo le chiavette poche ora prima. Per quanto si sforzasse, non riusciva a togliersi dalla mente che avrebbero dovuto trovarsi nel cruscotto. Pur essendo un ragazzo dotato di una calma serafica, la mancanza delle chiavette cominciò a preoccuparlo. Fece appello a tutta la sua calma e rifletté qualche secondo. Dunque, si trovava a Pinerolo. Non in una città con un alto indice di criminalità. Quale mente malata avrebbe rubato un Vannette della nettezza urbana. Ma che senso aveva tutto ciò. Dopotutto, se qualche morto di fame avesse cercato di rubargli il mezzo, cosa era che sperava non fosse accaduto in quella occasione, se ne sarebbe andato via solo con delle stupide chiavi? Continuò a tastare con le mani nella confusione che regnava in quel cruscotto quando la sua attenzione si concentrò sulla toppa. Le chiavi erano lì. In bella mostra. Com'era possibile? Non era da lui commettere tale tipo di errore. E era, però, inequivocabile che le chiavi si trovassero proprio lì. Allora, ci diamo una mossa? Lo incalzò Aldo. Incredulo, Livio girò la chiavetta e mise in moto il mezzo. Oh... era ora. Seguimi. Esclamò Aldo. Completamente all'oscuro di quanto stava accadendo a pochi passi da lui, Luigi si destò di soprassalto. Non gli era mai capitato di assopirsi all’inpiedi. Scosse la testa, tirò su i pantaloni e la lampo ed usci. Si pulì le scarpe sull'erba di un'aiuola. Arrivò sul ciglio della strada e si guardò a destra ed a sinistra prima di attraversare. Poi, si bloccò di colpo. Il Vannette non c'era più. Impossibile. Strabuzzò gli occhi. Cercò di ricordare. Dunque... ma che diamine. Si trovava a Pinerolo. nessuno ruba un Vannette della nettezza urbana. eppure, per quanto la cosa gli paresse follemente e ragionevole il suo mezzo non c'era più. Era stato via solo un paio di minuti. Pensava. Provo a controllare l'orologio e verificò l'esattezza di questo pensiero. Dopo avere trovato conferma, quando li alzò lo sguardo notò con stupore una cosa strana. Il suo Vannette si trovava parcheggiato una decina di metri più avanti di dove ricordava di averlo lasciato. E dietro di sé, vi era un'auto, un'Alfa Centoquarantasei, per la precisione. Abbassò lo sguardo come per aiutarsi a ricordare meglio. Si diede un pizzicotto per trovare conferma del suo dubbio se fosse sveglio oppure stesse ancora dormendo. Decise di cominciare ad attraversare la strada e si avvicinò sempre di più al Vannette. Entrò nell'abitacolo. Raccolse un po' di fiato. Era stato fortunato, pensò. Lo spavento venne attenuato dalla consapevolezza dello scampato pericolo. Questa volta, con decisione, girò la chiavetta di accensione. Niente. Il tipico rombo del motore del suo automezzo non era stato neppure lontanamente prodotto. Qualcosa non andava. Luigi rifletté qualche istante. Dunque... aveva girato la chiavetta nel quadro comando. Nel... qua... la chiavetta... Ora aveva capito. La chiavetta d'accensione era scomparsa. Un'altra volta. Spaventato da quella piccola serie di eventi misteriosi, l'operatore ecologico aprì la portiera ed uscì istantaneamente dall'automezzo. In quello stesso momento, in via Garibaldi, stava sopraggiungendo una Fiat Stilo ed il conducente evitò per miracolo la collusione, sterzando e frenando bruscamente. Luigi capì di aver appena commessa una sciocchezza. Una grossa sciocchezza. Il conducente della Stilo abbassò il cristallo laterale anteriore destro e apostrofò l’operatore ecologico con epiteti irriguardosi. Ma sei pazzo? Urlò l'uomo visibilmente fuori dei gangheri. Mi scusi. Mi scusi. Non me ne sono accorto. Cercò di fare ammenda Luigi. Si è fatto nulla? Chiese l’uomo seriamente preoccupato. No. Sto bene. Mi creda. È tutto a posto. Rispose scioccato Luigi. L'uomo richiuse il finestrino e continuò a smistare al povero Luigi quanti più insulti conosceva. Ma tu guarda che soggetto. Esclamò. Luigi cercò di contenere lo stato di agitazione in cui si trovava ed entrò nuovamente nel suo automezzo. Abbassò lentamente lo sguardo cercando di scorgere la chiavetta di accensione inserita nel quadro. Senza riuscirvi. Le chiavi non si trovavano lì. Eppure, il suo mezzo era parcheggiato a Pinerolo. Nessuno ruba un Vannette della nettezza urbana, tanto meno le sole chiavetta d'accensione. lo sguardo gli cadde sul cruscotto, debolmente illuminata dalla luce gialla dei lampioni disposti sul lato della strada. Le chiavette si trovavano lì, in bella mostra. Tremante ed esitante, allungo la mano destra e le afferrò. Le inserii nel quadro. Le girò bruscamente l'autocarro si mise in moto. Sembrava un incubo. Da quando si era svegliato, quella mattina, le cose sembravano sfuggirgli di mano. La sua memoria l'aveva tradito già quattro volte. Per due aveva creduto di aver lasciato il suo Vannette parcheggiato in una posizione differente da quella in cui lo aveva ritrovato. Una volta credeva di aver lasciato le chiavi nel cruscotto, una volta inserita nel quadro. In entrambi i casi, i fatti gli avevano dimostrato che si era sbagliato. Guardò bene con lo specchietto retrovisore, nel caso stesse sopraggiungendo qualche altro mezzo e quindi si avviò con un pensiero fisso nel cervello: che quella sarebbe stata una giornata che si sarebbe ricordato per un bel pezzo. E senza saperlo aveva tristemente ragione. Quello che era accaduto era tanto semplice quanto diabolico. Alle due di notte Giovanni e il suo aiutante Oreste si avviarono furtivi verso tutti i seggi elettorali. Lo stratagemma che avevano trovato per distrarre la sorveglianza dei soldati era stato quello di recapitare loro tre videocassette di Poana Mozzi, nota pornostar disponibile in celluloide senza alcuna inibizione. Il piano funzionò a meraviglia. I ribaldi non ebbero alcun tipo di disturbo per le loro malefatte. Giovanni ed il suo fedele aiutante si recarono in tutti i seggi elettorali e mentre uno controllava i movimenti dei soldati di guardia l'altro penetrava nello stabile e trafugava gli scatoloni con le schede elettorali sostituendoli con quelli falsi. Il nastro che serviva a sigillare porte e finestre, il quale recava le firme autografe di scrutatori, segretario e presidente, fu sostituito con uno contraffatto, utilizzando una penna scanner ed una mini stampante. Quello che quei due cialtroni non sapevano era che i loro avversari avevano avuto la medesima pensata e che la stavano mettendo in pratica. Perciò, all'oscuro del diabolico disegno che il destino stava tracciando quella notte, Giovanni sostituì tutti gli scatoloni con i voti dei pinerolesi con dei falsi che lo avrebbero reso il vincitore. Giacomo fece la medesima cosa con queste ultime e le cambiò con quelle che aveva fatto preparare per sé. Aldo avrebbe fatto altrettanto, vincendo così le elezioni, se non fosse intervenuto un fatto tanto casuale quanto inatteso, tale da risultare beffardo. Nell'ordine: Giovanni, Giacomo e Aldo, avevano progettato di sostituire il contenuto delle urne elettorali con delle copie identiche ma false, in cui loro stessi erano stati unanimemente votati. Questo tipo di truffa poteva essere fatta solo nella notte tra il sabato e la domenica, l'unico momento in cui le aule e i seggi venivano sigillate e sorvegliate da militari ma, sostanzialmente, lasciate incustodite al loro interno. A tutti e tre venne in mente di sostituire il contenuto ovvero delle urne con quello fasullo, utilizzando come copertura un Vannette della nettezza urbana dotato di un doppio fondo. Così Giovanni sostituì le schede votate con un eguale numero di "immondizia" contrassegnata da una X sotto il suo nome. Giacomo, convinto di fare altrettanto con le sue, in realtà non fece altro che scambiare un facsimile con un altro. Aldo, il quale concluso il ciclo, per un banale errore che aveva coinvolto Luigi Boaglio, riportò nelle urne le legittime schede, vanificando così il truffaldino progetto suo e di quegli allegri compari che rispondevano ai nomi di Giovanni Stortis e Giacomo Peretti. Ovviamente, nessuno di loro capì ciò che era successo. Fu Oreste ad intuire che le cose non erano andate come avevano prospettato quando, svegliatosi in tarda mattinata, decise di controllare il contenuto del suo Vannette. C'erano tutta una serie di schede da totalizzare e da far sparire in ogni modo. Cercò invano di azionare il meccanismo che apriva il doppio fondo. Provò e riprovò. Non accadde nulla. Il vano ribaltabile non si mosse di un millimetro. Era quasi tentato di chiamare un elettrauto allo scopo di far verificare l'impianto elettrico non funzionante. Cosa, ovviamente, alquanto pericolosa visto che se fosse riuscito riparare il guasto sarebbe stato difficile trovare un'esauriente spiegazione sul contenuto del doppio fondo. L'ansia si trasformò in puro panico quando lesse il numero di targa Elle Uno Quattro Tre Sette. Prese il portafogli e adesso vi tirò fuori un biglietto su cui aveva notato il suo esatto numero: Ipsilon Cinque Due Cinque Due. Il Vannette che si trovava parcheggiato nel suo box non era di sua proprietà. Siamo a Pinerolo. Pensò. Nessuno ruba un Vannette della nettezza urbana. Meno che meno lo sostituisce con uno apparentemente originale. Che cos'era dunque accaduto? Riflette. Ragionò. Cercò di ricordare. Ancor prima, però di giungere ad una soluzione sensata si convinse che fosse meglio avvertire Giovanni dell'accaduto. Forse lui avrebbe saputo dare una risposta a quello strano evento. Provo a telefonargli ma si bloccò al primo squillo. Quello era un tipo di conversazione che era opportuno fare a quattro occhi e lontano da orecchie indiscrete. Uscì dal boxeur, richiuse la saracinesca barcollante e si avviò su per la rampa di scale che portava al piano terra. Incontrò un vicino di casa, il quale sorridente gli domandò: Allora, come stanno andando le elezioni? Avete vinto? Chiese con uno stucchevole finto sorriso. Non adesso. Non adesso. Rispose teso Oreste. Poi, cominciò a rifletterci su mentre usciva dal portoncino della scala e si avviava superare il piano piloti e l'ultimo portoncino prima di ritrovarsi in strada. "Avete vinto"... pensò. Con una sola parola quell'individuo aveva probabilmente tradito la sua reale intenzione elettorale. Quella cioè di non votare per Giovanni. Complimenti, si disse Oreste., dopo tutto quello che lui aveva fatto per ottenere quel voto. Si era prodigato, aveva fatto in modo che la moglie venisse assunta presso una ditta fornitrice di un industriale, socio di Giovanni. Bel ringraziamento, pensò. Ma gliel'avrebbe fatta certamente pagare, in qualche modo. Dopo tutto, la donna era stata assunta con contratto interinale e bastava poco per far sì che l'azienda la licenziasse. Anzi, in ossequio alla legge Biagi, si dovrebbe dire che non gli si "rinnovasse il contratto". Raggiunta la strada, Oreste meditò per alcuni istanti cercando di ricordare dove aveva lasciato parcheggiata la sua auto. La trovò esattamente dove pensava. Gli tornarono in mente i dubbi e le incertezze di quella mattina ma si trattò di un fugace pensiero e non mise in relazione alla cosa con il "furto"... anzi, la sostituzione dell'arte. Entro nell'abitacolo della sua Lancia Ipsilon, prese le chiavi dalla tasca ed avviò il motore. Abitava in via nazionale e doveva ritornare nel centro di Pinerolo, in municipio, dove era certo che avrebbe trovato Giovanni. L’election Day arrivò come un giorno qualunque. Il tempo si mantenne graziosamente mite. Non una nuvola oscura il cielo ed una leggera fresca brezza e rese più piacevole l'esposizione ai raggi solari. I tre candidati accolsero tutto ciò come un segno premonitore per una loro vittoria. Giovanni si lasciò scappare, davanti ai suoi collaboratori,1 "avanti ragazzi, il cielo con noi". Giacomo non fu da meno e c'è chi giura di averlo sentito dire "se il buongiorno si vede dal mattino...". Aldo caricò la sua truppa utilizzando una parafrasi costruita sul titolo di un film che aveva visto la sera prima ed esclamò: "e la mattina di un giorno da leoni". Tutti e tre erano convinti che fortuna e successo avrebbero arriso alla loro scelta di concorrere al Parlamento italiano. I dati della affluenza alle urne furono salutate positivamente. Datamedia, Doxa, e gli altri istituti di sondaggi e statistiche, calcolarono che circa il novantasei per cento dei pinerolesi si era recato ai seggi. Tale percentuale risultò tra le più alte mai registrate nella zona per una campagna elettorale. Nelle sedi dei giornali locali si lavoro senza sosta per preparare la prima pagina del indomani con la notizia sulla vittoria di un candidato e la sconfitta degli altri tre. I giornalisti delle altre testate, dalla carta stampata alle televisioni generaliste, cercavano di captare l'umore dei pinerolesi, per azzardare una previsione su quanto sarebbe accaduto poche ore dopo. Si votò fino alle ventidue dopo di che i seggi si chiusero e si cominciò la conta dei voti. Una strana sensazione si diffuse nell'aria e serpeggiò nella mente degli addetti ai lavori dopo che iniziò lo spoglio delle prime schede. La sequenza pressoché uguale in tutti i seggi, fu la seguente: La Quaglia, La Quaglia, La Quaglia, La Quaglia, La Quaglia, La Quaglia, Stortis, La Quaglia, La Quaglia, Peretti, La Quaglia, La Quaglia, La Quaglia, Boaglio... Aldo Giovanni e Giacomo incominciarono ad impallidire. Avevano personalmente curato la sostituzione delle schede elettorali con quelle fasulle che avrebbero dovuto incoronarli in cima alle preferenze degli elettori. Eppure, dagli scatoloni sembravano uscire come per magia il nome della outsider, snobbata da tutti e con una campagna elettorale povera, autoprodotta e spesso raffazzonata. Qualcosa doveva essere andato storto ma cosa?