mercoledì 23 aprile 2014

Gli invisibili di Tomatis Pier Giorgio

Capitolo XI/ Gli invisibili
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Fuggii per i vicoli finché potei ma alla fine venni raggiunto. Due energumeni cominciarono a picchiarmi al volto ed alla testa, ripetutamente e con violenza. Quando mi accasciai a terra, un terzo prese a colpirmi con dei calci all'altezza dello stomaco e dei fianchi. Cominciavo a diventare insensibile al dolore, a causa delle percosse che stavo ricevendo. I tre continuarono a picchiarmi per almeno un quarto d'ora. Dopodichè, presero quel che restava del mio corpo dolorante e sanguinante e mi trascinarono per una ventina di metri, fino a che non raggiunsero una strada dove, pochi istanti più tardi, arrivò un quarto complice con un’auto. Mi infilarono nel baga-gliaio come fossi stato un sacco di patate e si avviarono verso destinazione sconosciuta. Non sentii più sparare ma non riuscii a distinguere se fosse per le percosse o perché gli assassini avevano deciso di inter-rompere la carneficina. Non avevo alcuna speranza di ca-varmela. Questi individui sembrarono essere professionisti esperti ed io non ero in condizione di cercare una via di fuga. Potevo solo sperare che mancasse ancora parecchio tempo prima dell’ora della mia esecuzione. Se mai mi fossi salvato, se mai avessi potuto tirarmi fuori da quella tragica situazione, sarebbe stato solo in un momento in cui il mio fisico si fosse rimesso dai traumi del selvaggio linciaggio che aveva subito. Mi sentii sballottato. Le mie ossa e i miei muscoli urlavano dal dolore mentre mi trovavo rannicchiato, al buio del vano dell’auto. Dopo circa mezz'ora di viaggio si fermarono ed aprirono il portellone del bagagliaio. Venni sollevato di peso e trascinato dentro un buio capannone. Qui mi legarono con delle manette ad una sbarra di ferro. Rimasi seduto in quella posizione per diverse ore. Mi ad-dormentai. Quando mi risvegliai la temperatura si era note-volmente abbassata. Doveva essere sopraggiunta la notte. Cominciai ad udire i primi suoni. Le mie orecchie stavano riprendendo a funzionare fino a riconoscere, chiaramente, il rumore provocato dalle pale di un elicottero che fendevano l’aria a poche decine di metri di distanza da dove mi trovavo. Un concitato vociare di diversi uomini fu il preludio all’aper-tura delle saracinesche di quella che, ora che anche i miei occhi cominciavano a scorgerla, doveva essere una vecchia fabbrica abbandonata. Venni nuovamente strattonato. Un ragazzo in giacca scura aprì con le chiavi le manette, me le sfilò dai polsi e mi prese per le spalle. Mi trascinò, senza tanti complimenti, verso l’esterno. Mentre ci stavamo avviando verso un gruppo di auto, voltai lo sguardo verso l’elicottero. Non riuscii a scorgere qualche indizio importante sull’identità delle persone che stavano salendovi sopra ma vidi che erano tre coloro che, per i capi di abbigliamento che indossavano, si distinguevano dai miei carcerieri. Arrivati ad una Chevrolet Epica beige, il giovane aprì il bagagliaio e, con una consuetudine a me ormai nota, mi ci scaraventò dentro. Dopo qualche minuto di un vociare concitato, l’auto e probabilmente anche le altre più vicine cominciarono a mettersi in moto e a far rombare i propri motori. Viaggiai sperando che mi venisse concessa la possibilità di riprendermi, così da poter vender cara la pelle, ma il viaggio durò solo pochi chilometri. Quando ci fermammo, i motori delle auto restarono accesi. Il gruppo si preparava a tornare indietro in breve tempo. Il bagagliaio si aprì ed io venni afferrato da almeno tre paia di mani. Venni portato dentro l’abitacolo dell’auto. I miei carcerieri mi legarono al posto di guida, con la cintura di sicurezza, e spinsero la macchina, con il motore in folle, verso un piccolo dislivello. L'auto cominciò a prendere velocità. Probabilmente questa sarebbe stata la mia fine. Dopo una ventina di metri circa mi ritrovai nel vuoto pronto a sfracellarmi chissà dove. Cominciai a pregare nei secondi che mi separavano dall'eterno oblio. Con sorpresa sentì un tonfo morbido ed un improvviso calo della temperatura con rumori gorgheggianti giungere da ogni punto dell’auto. La mia istan-tanea conclusione fu che ero stato scaraventato nel Lago Mi-chigan. Con le mani e le braccia che pesavano come macigni, e il freddo pungente che intorpidiva ancor di più i miei muscoli, sfilai la cintura di sicurezza, poi, ponendomi di traverso tra i sedili, puntai con i piedi la portiera anteriore destra e spinsi più forte che potei con la schiena quella del lato del guidatore, mentre con le dita della mano sinistra facevo scattare il meccanismo di apertura. La pressione era fortissima e il dolore lancinante ma com-plice la disperazione, al terzo tentativo, riuscii ad attuare il mio proposito ed a lasciare l'abitacolo dell'auto che si inabissava sempre di più. Trattenendo il respiro, vincendo il dolore, la fatica e il freddo pungente, mi spinsi con i piedi e le braccia verso l'alto, verso la superficie. Passarono lunghi ed interminabili secondi in cui credevo di non farcela più. Poi sentii un leggero tonfo e l'aria premere delicatamente le mie narici. Non riuscivo nemmeno ad aprire gli occhi tumefatti per i colpi ricevuti e pressoché inutili dato che di notte sulle rive di quel tratto di acqua del lago non c'era alcuna luce. Nuotai faticosamente, cercando di capire se la corrente provenisse da uno dei fianchi o dalla schiena. Dopo tre interminabili minuti mi accorsi che le mie mani afferravano qualcosa di solido. Ero giunto sulla terraferma. Mi trascinai per alcuni metri lungo la scogliera, poi, abbandonato completamente dalle forze, mi arresi e persi conoscenza. Quando rinvenni non sapevo se erano passate ore o giorni da quella tragica notte. Sapevo solo che per qualche scherzo del destino ero ancora vivo. Malconcio ma vivo. “Sei sveglio?” Udii una voce provenire dalla mia sinistra. Mi sforzai di aprire gli occhi ma il tentativo si rivelò fallimentare. “Non ti sforzare. Prova a parlare o a fare un cenno con il capo solo quando te la senti.” Cercai di aprir bocca e di pronunciare qualche parola. Fu tutto inutile. Allora mossi leggermente il capo in avanti. “Molto bene, giaguaro. Riposa e cerca di guarire. Il grande Spirito veglierà su di te.” Le parole dell'uomo mi colpirono più forte di quanto fecero gli uomini che mi avevano ridotto in fin di vita. L'uomo misterioso mi aveva chiamato giaguaro e il timbro della sua voce era sempre più chiaramente familiare. John Littletrees mi aveva raccolto e mi stava prestando soc-corso. Mi sentii più sollevato e i giorni passarono velocemente. Quando mi ripresi, in maniera sufficiente da potermi rialzare e affrontare la luce, aprii gli occhi, mi voltai sul fianco del mio giaciglio, diedi una fugace occhiata a quella che doveva essere una tenda da campeggio, mi sollevai e avviai verso l'esterno. Oltrepassai l'apertura dalla quale sentii provenire voci con-citate e vidi dei bagliori di luce con gli occhi ancora deboli e malconci. L’immagine che mi si delineò davanti agli occhi fu la più strana che mi fosse capitato di vedere in tutta la mia vita. Accanto alla mia tenda canadese ve ne erano altre, disposte tutto intorno a formare un cerchio, ed al centro del campo c’erano i resti carbonizzati di un falò circondato da una serie di pietre verdi ed aguzze. Un bivacco. La cosa che mi sorprese di più furono gli uomini e le donne, i quali si immobilizzarono letteralmente non appena mi videro uscire. Erano anziani uomini, e donne, di chiara origine pellerossa. Cercai con lo sguardo di scorgere la presenza di John Littletrees ma non vi riuscii. “John“ esclamai con un filo di voce. Dopo una decina di se-condi, mi si avvicinò un piccolo ometto con i capelli corvini, raccolti dietro la nuca in una lunghissima treccia, legati al ter-mine con un nastro di color rosso. “ L'uomo medicina ci ha detto di avere cura di te finché non ti fossi rimesso. Lui non è qui ma ti ha lasciato un messaggio alla maniera dell'uomo bianco.” Fu allora che l'ometto si voltò verso la vecchia dai capelli grigi, la quale, passato qualche istante di incertezza e confusione, entrò in una delle tende per uscirne immediatamente dopo con un foglio di carta arrotolato come una pergamena e stretto in centro da un nastro, dello stesso colore rosso di quello del ferma capelli del piccolo indiano che avevo di fronte. Me lo pose tra le mani e arretrò di alcuni passi. Slacciai il rotolo e iniziai a leggerne il contenuto. Sciamano giaguaro, l'uomo bianco della Gateland ti ha quasi ucciso ed è convinto di averlo fatto. Ha cercato di ucciderti fisicamente e ha fatto in modo che la morte di parecchi uomini, la distruzione di parecchie cose, fosse da ascriversi alla tua responsabilità. Questo ti insegna, giaguaro, che egli è più spietato e pericoloso di un serpente a sonagli. La prova che hai dovuto superare è stata descritta nei giornali dell’uomo bianco. Tutti sono convinti che tu sia morto. Anche tua moglie che presto pregherà per te il Grande Spirito. Se tu cercherai di tornare sui tuoi passi, il tuo nemico tornerà ad incrociare la tua strada per ucciderti e, questa volta, potrebbe riuscirci definitivamente. Il tuo destino è legato a quello di molti sfortunati abitatori di queste terre. Per sfuggire ad un nemico terribile dovrai renderti invisibile per giorni, settimane, mesi, forse anni. Ma quando verrà il suo momento il giaguaro tornerà a ruggire e ucciderà ogni suo avversario perché tra gli uomini medicina egli è il più potente. L'unico in grado di conoscere la mano destra del Diavolo, sopportare il suo tocco e non morire tra i più atroci tormenti. L’unico capace di sradicare il potere di Gateland dalla sua mano e di contribuire alla sua fine. Perciò il tuo compito, per l'immediato futuro, sarà quello di confonderti tra la povera gente, di unirti ad essa, di vivere secondo le regole del Grande Spirito avendo sopra la testa solo il cielo pieno di stelle e per abitazione la nuda terra. Ti renderai invisibile all'uomo bianco, in attesa che arrivi il tuo momento. Affilerai i denti e gli artigli e aspetterai con pazienza. Io ti osserverò e sarò sempre pronto ad aiutarti. La firma era, ovviamente, quella dello sciamano/lupo che fino ad allora era stato portatore di speranza per la mia vita, il mio destino, la mia missione: John Littletrees.

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